L’Obiettivo 2 si prefigge di aumentare la produzione di alimenti per sconfiggere la fame nel mondo ponendo però attenzione alla qualità del cibo e a una coltivazione che sia sostenibile per l’ambiente. Questa difficile meta può essere resa più vicina dalla conoscenza del passato, dalla consapevolezza degli errori, ma anche delle conquiste, che hanno coinvolto l’umanità. Le raccolte conservate in un Museo possono quindi essere lo spunto da cui partire per approfondire storie e tradizioni di epoche e genti diverse in modo da poter evitare errori commessi o seguire e migliorare strade già intraprese. Dal ricco patrimonio custodito nel Museo Botanico-Erbario a partire dalla fine del Settecento, sono state evidenziate delle specie, sotto forma di campioni d’erbario, frutti, semi o tavole didattiche, che hanno, e hanno avuto, un ruolo importante nell’alimentazione. Alcune di queste hanno anche causato seri problemi legati ad un uso non corretto mentre, per altre, la maggior coltivazione e sfruttamento potrà in parte risolvere il problema di una richiesta sempre più grande di alimenti per una popolazione in continuo aumento.

La tappa si apre sulla necessità di cambiare il più possibile ciò che si mangia ogni giorno affinchè l’organismo possa beneficiare di tutti i nutrienti. L’idea che alla base di un’alimentazione sana ci sia la varietà, ha cominciato a farsi strada già verso gli inizi del 1700. In quegli anni andava diffondendosi, in alcune zone d’Europa, una malattia che associava alterazioni della pelle a disturbi del sistema nervoso centrale e presto fu chiaro il legame che aveva con il mais (Zea mays L.), pianta originaria degli altopiani del Messico dove, stranamente, tale patologia non era mai stata osservata. La malattia, denominata pellagra (da pelle ruvida, secca), risultò legata alla povertà delle popolazioni che se ne cibavano e non a una tossina presente nelle piante coltivate. Il mais, infatti, ha un valore nutrizionale più basso di quello di altri cereali e, in particolare, è scarso in vitamina B3. Presso Inca e Atzechi il suo consumo  era stato bilanciato da patate, avocado, meloni, zucca, pomodori e fagioli mentre, quando il mais giunse in Europa divenne, per una parte della popolazione, quasi l’unica fonte di nutrimento utilizzata.
Il mais, comunque, è uno dei cereali maggiormente impiegati nel mondo sia per l’alimentazione umana sia per quella animale perchè possiede molti vantaggi tra cui una grande tolleranza alle diverse condizioni climatiche e una resistenza alla predazione degli uccelli. Ma non può essere il cibo predominante.

In parte simile è la storia del riso (Oryza sativa L.), importantissima fonte alimentare per più della metà della popolazione mondiale. Le prime tracce della sua coltivazione si trovano in India e Cina e risalgono a oltre 4000 anni fa; da qui si è poi diffusa in tutto il mondo con creazione di diverse migliaia di cultivar a partire da tre sottospecie, con Oryza sativa ssp. japonica prevalente nelle coltivazioni europee. Già nei vecchi trattati cinesi e in alcuni documenti delle antiche civiltà mediterranee, si trovano notizie di una grave malattia che si manifestava con effetti paralizzanti e disturbi cardiovascolari.  Chiamata beriberi (parola di origine malese), era ampiamente diffusa in Asia dove era pratica regolare trattare il riso per renderlo bianco e lucido, azione che comporta la perdita di buona parte dello strato esterno dei chicchi, ricco in proteine e vitamine. Ed è proprio una dieta che coinvolga quasi esclusivamente questo tipo di riso, detto “brillato”, a causare una grave mancanza in tiamina (o vitamina B1) che non si manifesta in una dieta equilibrata e con consumo di cereali integrali.
La coltura del riso ha però grande importanza perché è un cereale che può essere coltivato in tutti i territori che presentano un clima da tropicale a temperato ma, sull’altro piatto della bilancia, occorre mettere il beriberi e l’esigenza di acqua in abbondanza  per la sua coltivazione; acqua che, per essere sostenibile, dev’essere a basso costo.

Un esempio dell’importanza di mantenere la variabilità e la ricchezza delle specie coltivate per favorire il raggiungimento della sicurezza alimentare, può essere evidenziato dal caso della patata (Solanum tuberosum L.), una pianta americana che, grazie ad alcuni frammenti di ceramica, sappiamo veniva coltivata in Perù già 4000 anni fa. Arrivata in Europa nella seconda metà del Cinquecento, per molti anni non ebbe fortuna sia perché non menzionata nella Bibbia, sia perché capace, una volta sepolta nel terreno, anche gelato, di gonfiarsi e moltiplicarsi. La specie, tossica in tutte le sue parti verdi, se mangiata cruda provoca eczema, un tempo considerato una specie di lebbra, e anche questo fatto non ne facilitò la diffusione. L’unica eccezione si ebbe in Irlanda, terra che per il clima mal si adatta ai cereali, dove la patata divenne alimento base già nel XVII secolo. Attorno alla metà dell’Ottocento però, un parassita, la peronospera, distrusse i raccolti causando la morte per fame di decine di migliaia di persone. La spiegazione più probabile è che, dato che la specie viene propagata soprattutto grazie a pezzi di tubero interrati, tutte le patate irlandesi derivassero da uno o pochi progenitori per cui, vulnerabile una pianta, risultarono vulnerabili tutte. Una maggiore biodiversità nelle varietà scelte di patata avrebbe potuto, se non impedire, almeno limitare alquanto gli effetti della carestia.

La tappa prosegue con due specie prese a modello di un’alimentazione sana e nutriente. Cominciamo con il fagiolo (Phaseolus vulgaris L.), la leguminosa più conosciuta e diffusamente coltivata nel mondo. La pianta è originaria dell’America Centrale, dove reperti archeologici, trovati in Messico, ne attestano la presenza a oltre 5000 anni fa. Introdotto in Europa nel XVI secolo, questo legume è segnalato a Roma nel 1528 dove riscuote grande successo per il sapore e la facilità di coltivazione mentre pochi anni dopo fa la sua comparsa in Francia al seguito di Caterina dè Medici, moglie di Enrico II. Con il 50% di carboidrati, diverse vitamine e sali minerali e oltre il 15% di proteine, i fagioli costituiscono, adesso come in passato, un’importantissima fonte alimentare anche grazie al fatto che, una volta seccati, durano a lungo e sono facilmente trasportabili.
La seconda, anche se non altrettanto gradita per il suo sapore e odore, soprattutto tra i più piccoli, è una pianta che raccoglie in sé molti elementi che proteggono l’organismo dall’insorgenza di patologie tipiche della malnutrizione: il cavolo (Brassica oleracea L.). Specie molto polimorfa nativa dell’area mediterranea e dell’Europa sud-occidentale, negli oltre 4000 anni della sua coltivazione ha dato origine a diverse sottospecie e varietà tra cui i cavolini di Bruxelles, il cavolo-rapa, il cavolfiore, i broccoli, il cavolo cappuccio, il cavolo rosso e il cavolo verza. Questi ortaggi hanno aspetto molto diverso uno dall’altro ma originano tutti dallo sfruttamento di diverse malformazioni sviluppatesi sulla pianta. Il cavolfiore, ad esempio, deriva da un’infiorescenza compatta e globosa mentre la verza proviene da forme con foglie grinzose. Il cavolo è un alimento povero in proteine e carboidrati ma ricco in fibre, minerali (tra cui ferro, calcio, potassio) e vitamine, soprattutto acido ascorbico (o vitamina C) e vitamina K.  A tutto questo si aggiungono aminoacidi, composti aromatici, flavonoidi e carotenoidi che conferiscono a queste piante importanti proprietà antitumorali e detossificanti.

Ma la lotta alla povertà e all’insicurezza alimentare potrà essere vinta anche grazie all’uso di “nuovi” alimenti quali le alghe e i funghi. Le prime sono organismi acquatici che possono vivere anche sulla terra umida o sui tronchi degli alberi, in grado di fare fotosintesi ma prive di vere e proprie radici e tessuti. Molto eterogenee tra loro, la presenza di diversi pigmenti permette di dividerle in gruppi tra cui quello delle alghe rosse cui appartiene il genere Porphyra. Presente con diverse specie nell’Atlantico nord orientale e nel bacino del Mediterraneo, in Oriente è spesso noto come “alga Nori”, nome comunemente usato per indicare l’alga consumata con il sushi e ricca in proteine, vitamine e sali minerali. Alcune specie di porfira sono comuni e ampiamente diffuse anche nei nostri mari per cui possono rappresentare un’importante fonte di cibo che richiede solo di essere maggiormente coltivata e, spesso, apprezzata.
Indubbiamente più tradizionali sono invece i funghi che costituiscono un alimento gradito da molti per il loro intenso profumo e gusto che si abbina ad un apporto calorico veramente basso. Sono generalmente molto ricchi in vitamine, soprattutto del gruppo B, forniscono carboidrati, ma anche potassio, fosforo e magnesio, sono abbastanza comuni e, tranne qualche eccezione, facilmente coltivabili. Tutte queste caratteristiche fanno dei funghi un alimento alla portata di tutti, ancor più in forma di “micoproteine”, cioè composti ottenuti dalla loro fermentazione. Ottimi sostituti della carne animale per l’alta concentrazione in fibre e proteine, le micoproteine hanno un bassissimo impatto ambientale sia in termini di costi economici sia per il consumo di acqua e l’emissione di anidride carbonica. Tutto questo li renderà, una volta ultimati gli studi per eliminare possibili effetti allergici e per migliorare le tecnologie di produzione, uno dei cibi del futuro.
È comunque sempre necessario superare la perplessità e il blocco psicologico che si manifesta di fronte a cibi così lontani dalle nostre tradizioni.  
 
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Testo a cura di: Rossella Marcucci, conservatrice Museo Botanico-Erbario