La ricerca astronomica spesso appare completamente disgiunta dalla vita reale. Fin dalla metà dell’Ottocento, le ricerche di spettroscopia furono fondamentali per lo sviluppo dello studio della materia e per varie applicazioni in campo tecnologico e medico. Basti pensare alla scoperta del coronio nello spettro della corona solare e del nebulio in quelli delle nebulose. All’epoca in laboratorio si adoperavano prevalentemente gas neutri a densità relativamente alte, quindi le righe di emissione del coronio e del nebulio furono attribuite a nuovi elementi chimici non presenti sulla Terra. In realtà erano elementi chimici noti, ma elettricamente carichi, quelli che oggi chiamiamo plasmi! Pensate a tutte le applicazioni che oggi abbiamo col plasma.
Un altro esempio di serendipity, è lo studio del funzionamento delle stelle: chi avrebbe mai detto che studiando gli astri, avremmo trovato una fonte di energia praticamente inesauribile e con un gas inerte come residuo?! Manca ancora qualche decennio per arrivare allo sfruttamento di questa energia, ma Padova è già in prima linea in questa importante ricerca.
La spettroscopia padovana ebbe un grande sviluppo con l’inaugurazione del telescopio Galileo avvenuta nel 1942. Il direttore Giovanni Silva, nonostante fosse un esperto di geodesia e di calcolo delle orbite planetarie, fu altruista e lungimirante quando volle assolutamente applicare uno spettrografo al telescopio Galileo (e per questo fu utilizzata la denominazione Osservatorio Astrofisico di Asiago). A causa dei problemi provocati dal secondo conflitto mondiale, il primo spettrografo, a prismi, arrivò solo nel 1942. Seguirono poi altri spettrografi, ma a reticolo di diffrazione, come quelli che utilizziamo tutt’oggi. Tra i vari studi spettroscopici che si portano avanti fin dalla fondazione dell’Osservatorio, quello delle stelle novae è sicuramente uno dei più importanti.

Le stelle novae sono formate da una stella nana bianca (grande come la Terra, ma con una massa come il Sole e quindi una densità di circa una tonnellata per cm3!) e da una stella di tipo solare. Se quest’ultima cede del gas a dei ritmi ben precisi alla nana bianca può provocare l’esplosione del guscio della nana stessa: è il fenomeno di nova, il quale è prodotto dalla fusione nucleare che avviene addirittura sulla superficie della stella (nelle stelle standard come il nostro Sole, la fusione termonucleare può avvenire solo nel nucleo, inaccessibile alle osservazioni dirette). Oggigiorno ci sono astrofili (astronomi dilettanti) e telescopi robotici che vanno a caccia di nuove novae, ma un tempo si cercavano anche da Asiago, in particolare coi telescopi Schmidt a grande campo. Fino agli anni novanta, si lavorava con lastre fotografiche e si cercavano le novae confrontando immagini nuove con quelle d’archivio, attraverso l’utilizzo del comparatore o blinker.
Scoperta la nova, si procedeva poi al suo studio approfondito col telescopio Galileo, sia attraverso la spettroscopia che la fotometria. La fotometria è una sorta di spettroscopia a bassissima risoluzione: invece che analizzare le singole lunghezze d’onda, si usano dei filtri per studiare l’andamento luminoso in bande di vario colore (vicino infrarosso, rosso, verde, blu e ultravioletto). Per calcolare la luminosità dell’astro attraverso la sua magnitudine apparente o per estrarre il suo spettro, si doveva analizzare la lastra fotografica con un microscopio. I dati così ottenuti poi venivano plottati su carta millimetrata e mandati alle riviste specializzate di astronomia per la pubblicazione.
Era un modo di lavorare analogico che richiedeva circa una settimana per ottenere uno spettro pubblicabile, mentre oggi bastano pochi minuti!
Questa metodica richiedeva in gran parte strumentazioni su misura, adatte al telescopio, e quindi il MUSA raccoglie strumenti di cui solo poche copie al mondo.

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Testo a cura di: Paolo Ochner, Museo degli Strumenti dell'Astronomia