1Obiettivo 1 - Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo (Museo di Antropologia)

Gli indici di povertà estrema si sono ridotti di più della metà dal 1990. Nonostante si tratti di un risultato notevole, nelle zone in via di sviluppo una persona su cinque vive ancora con meno di 1,25 dollari al giorno e ci sono molti milioni di persone che ogni giorno guadagnano poco più di tale somma. A ciò si aggiunge che molte persone sono a rischio di ricadere nella povertà.
La povertà va ben oltre la sola mancanza di guadagno e di risorse per assicurarsi da vivere in maniera sostenibile. Tra le sue manifestazioni c’è la fame e la malnutrizione, l’accesso limitato all’istruzione e agli altri servizi di base, la discriminazione e l’esclusione sociale, così come la mancanza di partecipazione nei processi decisionali. La crescita economica deve essere inclusiva, allo scopo di creare posti di lavoro sostenibili e di promuovere l’uguaglianza.
In quest’ottica anche un museo può giocare un ruolo non secondario. Tra le sue collezioni etnografiche, il Museo di Antropologia conserva un nucleo consistente di oggetti provenienti dall’Africa sub-sahariana che, assieme all’Asia meridionale, concentra la stragrande maggioranza di persone povere del pianeta. Si tratta di armi, oggetti d’uso comune, strumenti musicali, accessori d’abbigliamento, oggetti rituali, maschere e sculture lignee provenienti dal Sudan del Sud, Guinea-Bissau, Repubblica Democratica del Congo e Mozambico.
La loro acquisizione, spesso legata ad un acquisto o uno scambio, è spesso testimonianza di un passato coloniale durante il quale le nazioni europee si avvicinavano alle culture africane esibendo un marcato senso di superiorità. Agli occhi degli occidentali le produzioni etnografiche africane esprimevano la primitività del continente, creando al tempo stesso un senso di fascinazione.
In una visione moderna, completamente scevra da ogni ideologia gerarchizzante, la piena consapevolezza del proprio patrimonio culturale e la conseguente valorizzazione possono diventare il volano per uno sviluppo che porti ricchezza a questi paesi attraverso la vendita o gli scambi di questi oggetti. La creazione di circuiti legati all’arte etnografica e al collezionismo, assieme alla promozione di un turismo attento a queste tematiche che porti visitatori nei luoghi di produzione, possono fornire un tassello nella sconfitta della povertà per queste popolazioni.

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Testo a cura di: Nicola Carrara, conservatore Museo di Antropologia

2Obiettivo 2a - Vegetariani? Non solo! Storie passate e sviluppi futuri dal Museo Botanico-Erbario

L’Obiettivo 2 si prefigge di aumentare la produzione di alimenti per sconfiggere la fame nel mondo ponendo però attenzione alla qualità del cibo e a una coltivazione che sia sostenibile per l’ambiente. Questa difficile meta può essere resa più vicina dalla conoscenza del passato, dalla consapevolezza degli errori, ma anche delle conquiste, che hanno coinvolto l’umanità. Le raccolte conservate in un Museo possono quindi essere lo spunto da cui partire per approfondire storie e tradizioni di epoche e genti diverse in modo da poter evitare errori commessi o seguire e migliorare strade già intraprese. Dal ricco patrimonio custodito nel Museo Botanico-Erbario a partire dalla fine del Settecento, sono state evidenziate delle specie, sotto forma di campioni d’erbario, frutti, semi o tavole didattiche, che hanno, e hanno avuto, un ruolo importante nell’alimentazione. Alcune di queste hanno anche causato seri problemi legati ad un uso non corretto mentre, per altre, la maggior coltivazione e sfruttamento potrà in parte risolvere il problema di una richiesta sempre più grande di alimenti per una popolazione in continuo aumento.

La tappa si apre sulla necessità di cambiare il più possibile ciò che si mangia ogni giorno affinchè l’organismo possa beneficiare di tutti i nutrienti. L’idea che alla base di un’alimentazione sana ci sia la varietà, ha cominciato a farsi strada già verso gli inizi del 1700. In quegli anni andava diffondendosi, in alcune zone d’Europa, una malattia che associava alterazioni della pelle a disturbi del sistema nervoso centrale e presto fu chiaro il legame che aveva con il mais (Zea mays L.), pianta originaria degli altopiani del Messico dove, stranamente, tale patologia non era mai stata osservata. La malattia, denominata pellagra (da pelle ruvida, secca), risultò legata alla povertà delle popolazioni che se ne cibavano e non a una tossina presente nelle piante coltivate. Il mais, infatti, ha un valore nutrizionale più basso di quello di altri cereali e, in particolare, è scarso in vitamina B3. Presso Inca e Atzechi il suo consumo  era stato bilanciato da patate, avocado, meloni, zucca, pomodori e fagioli mentre, quando il mais giunse in Europa divenne, per una parte della popolazione, quasi l’unica fonte di nutrimento utilizzata.
Il mais, comunque, è uno dei cereali maggiormente impiegati nel mondo sia per l’alimentazione umana sia per quella animale perchè possiede molti vantaggi tra cui una grande tolleranza alle diverse condizioni climatiche e una resistenza alla predazione degli uccelli. Ma non può essere il cibo predominante.

In parte simile è la storia del riso (Oryza sativa L.), importantissima fonte alimentare per più della metà della popolazione mondiale. Le prime tracce della sua coltivazione si trovano in India e Cina e risalgono a oltre 4000 anni fa; da qui si è poi diffusa in tutto il mondo con creazione di diverse migliaia di cultivar a partire da tre sottospecie, con Oryza sativa ssp. japonica prevalente nelle coltivazioni europee. Già nei vecchi trattati cinesi e in alcuni documenti delle antiche civiltà mediterranee, si trovano notizie di una grave malattia che si manifestava con effetti paralizzanti e disturbi cardiovascolari.  Chiamata beriberi (parola di origine malese), era ampiamente diffusa in Asia dove era pratica regolare trattare il riso per renderlo bianco e lucido, azione che comporta la perdita di buona parte dello strato esterno dei chicchi, ricco in proteine e vitamine. Ed è proprio una dieta che coinvolga quasi esclusivamente questo tipo di riso, detto “brillato”, a causare una grave mancanza in tiamina (o vitamina B1) che non si manifesta in una dieta equilibrata e con consumo di cereali integrali.
La coltura del riso ha però grande importanza perché è un cereale che può essere coltivato in tutti i territori che presentano un clima da tropicale a temperato ma, sull’altro piatto della bilancia, occorre mettere il beriberi e l’esigenza di acqua in abbondanza  per la sua coltivazione; acqua che, per essere sostenibile, dev’essere a basso costo.

Un esempio dell’importanza di mantenere la variabilità e la ricchezza delle specie coltivate per favorire il raggiungimento della sicurezza alimentare, può essere evidenziato dal caso della patata (Solanum tuberosum L.), una pianta americana che, grazie ad alcuni frammenti di ceramica, sappiamo veniva coltivata in Perù già 4000 anni fa. Arrivata in Europa nella seconda metà del Cinquecento, per molti anni non ebbe fortuna sia perché non menzionata nella Bibbia, sia perché capace, una volta sepolta nel terreno, anche gelato, di gonfiarsi e moltiplicarsi. La specie, tossica in tutte le sue parti verdi, se mangiata cruda provoca eczema, un tempo considerato una specie di lebbra, e anche questo fatto non ne facilitò la diffusione. L’unica eccezione si ebbe in Irlanda, terra che per il clima mal si adatta ai cereali, dove la patata divenne alimento base già nel XVII secolo. Attorno alla metà dell’Ottocento però, un parassita, la peronospera, distrusse i raccolti causando la morte per fame di decine di migliaia di persone. La spiegazione più probabile è che, dato che la specie viene propagata soprattutto grazie a pezzi di tubero interrati, tutte le patate irlandesi derivassero da uno o pochi progenitori per cui, vulnerabile una pianta, risultarono vulnerabili tutte. Una maggiore biodiversità nelle varietà scelte di patata avrebbe potuto, se non impedire, almeno limitare alquanto gli effetti della carestia.

La tappa prosegue con due specie prese a modello di un’alimentazione sana e nutriente. Cominciamo con il fagiolo (Phaseolus vulgaris L.), la leguminosa più conosciuta e diffusamente coltivata nel mondo. La pianta è originaria dell’America Centrale, dove reperti archeologici, trovati in Messico, ne attestano la presenza a oltre 5000 anni fa. Introdotto in Europa nel XVI secolo, questo legume è segnalato a Roma nel 1528 dove riscuote grande successo per il sapore e la facilità di coltivazione mentre pochi anni dopo fa la sua comparsa in Francia al seguito di Caterina dè Medici, moglie di Enrico II. Con il 50% di carboidrati, diverse vitamine e sali minerali e oltre il 15% di proteine, i fagioli costituiscono, adesso come in passato, un’importantissima fonte alimentare anche grazie al fatto che, una volta seccati, durano a lungo e sono facilmente trasportabili.
La seconda, anche se non altrettanto gradita per il suo sapore e odore, soprattutto tra i più piccoli, è una pianta che raccoglie in sé molti elementi che proteggono l’organismo dall’insorgenza di patologie tipiche della malnutrizione: il cavolo (Brassica oleracea L.). Specie molto polimorfa nativa dell’area mediterranea e dell’Europa sud-occidentale, negli oltre 4000 anni della sua coltivazione ha dato origine a diverse sottospecie e varietà tra cui i cavolini di Bruxelles, il cavolo-rapa, il cavolfiore, i broccoli, il cavolo cappuccio, il cavolo rosso e il cavolo verza. Questi ortaggi hanno aspetto molto diverso uno dall’altro ma originano tutti dallo sfruttamento di diverse malformazioni sviluppatesi sulla pianta. Il cavolfiore, ad esempio, deriva da un’infiorescenza compatta e globosa mentre la verza proviene da forme con foglie grinzose. Il cavolo è un alimento povero in proteine e carboidrati ma ricco in fibre, minerali (tra cui ferro, calcio, potassio) e vitamine, soprattutto acido ascorbico (o vitamina C) e vitamina K.  A tutto questo si aggiungono aminoacidi, composti aromatici, flavonoidi e carotenoidi che conferiscono a queste piante importanti proprietà antitumorali e detossificanti.

Ma la lotta alla povertà e all’insicurezza alimentare potrà essere vinta anche grazie all’uso di “nuovi” alimenti quali le alghe e i funghi. Le prime sono organismi acquatici che possono vivere anche sulla terra umida o sui tronchi degli alberi, in grado di fare fotosintesi ma prive di vere e proprie radici e tessuti. Molto eterogenee tra loro, la presenza di diversi pigmenti permette di dividerle in gruppi tra cui quello delle alghe rosse cui appartiene il genere Porphyra. Presente con diverse specie nell’Atlantico nord orientale e nel bacino del Mediterraneo, in Oriente è spesso noto come “alga Nori”, nome comunemente usato per indicare l’alga consumata con il sushi e ricca in proteine, vitamine e sali minerali. Alcune specie di porfira sono comuni e ampiamente diffuse anche nei nostri mari per cui possono rappresentare un’importante fonte di cibo che richiede solo di essere maggiormente coltivata e, spesso, apprezzata.
Indubbiamente più tradizionali sono invece i funghi che costituiscono un alimento gradito da molti per il loro intenso profumo e gusto che si abbina ad un apporto calorico veramente basso. Sono generalmente molto ricchi in vitamine, soprattutto del gruppo B, forniscono carboidrati, ma anche potassio, fosforo e magnesio, sono abbastanza comuni e, tranne qualche eccezione, facilmente coltivabili. Tutte queste caratteristiche fanno dei funghi un alimento alla portata di tutti, ancor più in forma di “micoproteine”, cioè composti ottenuti dalla loro fermentazione. Ottimi sostituti della carne animale per l’alta concentrazione in fibre e proteine, le micoproteine hanno un bassissimo impatto ambientale sia in termini di costi economici sia per il consumo di acqua e l’emissione di anidride carbonica. Tutto questo li renderà, una volta ultimati gli studi per eliminare possibili effetti allergici e per migliorare le tecnologie di produzione, uno dei cibi del futuro.
È comunque sempre necessario superare la perplessità e il blocco psicologico che si manifesta di fronte a cibi così lontani dalle nostre tradizioni.  
 
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Testo a cura di: Rossella Marcucci, conservatrice Museo Botanico-Erbario
 

3Obiettivo 2b - Le macchine e le attrezzature agricole nel XIX secolo: le evoluzioni per un’agricoltura in cambiamento (Collezione di modelli di macchine e attrezzature agricole)

Il secolo XIX rappresenta un periodo storico di grande interesse per l’evoluzione tipologica e tecnologica di molte delle macchine e attrezzature utilizzate in agricoltura.
L’agricoltura europea e quella italiana in particolare avevano vissuto una serie di cambiamenti soprattutto tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo a causa della crescita demografica che poneva con crescente urgenza il problema delle risorse alimentari.
Per cercare di migliorare le condizioni delle campagne si fecero importanti investimenti nel settore della conoscenza tecnico-scientifica; ne è un esempio l’istituzione dell’Accademia dei Georgofili, fondata a Firenze nel 1753 per iniziativa di Ubaldo Montelatici, canonico lateranense, allo scopo di «far continue e ben regolate sperienze, ed osservazioni, per condurre a perfezione l’Arte tanto giovevole della toscana coltivazione”. Il Governo Granducale Lorenese le conferì presto carattere di Istituzione pubblica (prima nel mondo), affidandole importanti incarichi che vennero poi estesi a livello nazionale dopo l’unificazione del Regno d’Italia.
Sulla scia della fondazione dell’Accademia dei Georgofili e favorite anche dalle riforme introdotte da Napoleone Bonaparte all’istruzione pubblica, altre istituzioni sorsero in varie città d’Italia. A Bologna fu istituita nel 1807 la Società Agraria del Dipartimento del Reno, dalla quale deriverà poi l’Accademia Nazionale di Agricoltura; nel 1785 a Torino fu fondata la Reale Società Agraria, organo ufficiale di consulenza in materia agraria del Governo piemontese e poi, dopo l’Unità, di quello italiano; in anni più recenti, dopo il passaggio della Lombardia al nuovo Regno d’Italia, si costituì nel1861 a Milano la Società Agraria di Lombardia.
Anche a Padova l'evoluzione dell'insegnamento tecnico-scientifìco nel settore agricolo nell'ambito dell'Università degli Studi iniziò nel 1762 con l'istituzione della Cattedra di Agricoltura (Cathedra ad Agriculturam Exsperimentalem) e con la successiva costituzione dell'Orto Agrario affidate entrambe a Pietro Arduino (1728-1805), già "custode" dell'Orto Botanico e convinto assertore che l'agricoltura non poteva essere "che una parte della stessa botanica, scienza che abbraccia non solo la notizia delle piante, ma anche quella delle terre, clima e coltura che ricercano onde farle vivere e prosperare".

Il fiorire di istituzioni dedicate all’evoluzione dell’agricoltura portò con sé anche lo sviluppo di nuovi strumenti con i quali migliorare le lavorazioni agricole e di conseguenza incrementare la produttività delle colture.
L’attrezzo principe di tale sviluppo fu l’aratro, macchina usata dall’antichità per smuovere il terreno e prepararlo per successive lavorazioni e per la semina.
Sul finire del XVIII e l’inizio del XIX secolo si ebbero in Centro Europa numerosi studi e realizzazioni di modelli di aratri tra i quali quelli di Small, dell’Arbuthnot, di Sims, di Ransome, di Valcourt, di Oliver, di Grangè. Si trattava comunque di sviluppi empirici che privilegiavano l’adattamento dell’attrezzo alle condizioni locali. Una svolta importante si ebbe quando si cominciò a studiare la teoria del distacco della fetta di terreno e del suo più razionale rovesciamento, che consentì di realizzare profili più idonei ed efficienti del vomere, del coltro e del versoio, ancor oggi tenute in considerazione dagli industriali del settore nell’approntamento dei modelli moderni.
Si distinsero in questi sviluppi Gibs, Valcourt e Oliver, in Europa, Ridolfi, Lambruschini e Bertone di Sambuy, in Italia. Particolarmente importante fu l’intuizione di Lambruschini il quale definì che, per rendere uniforme il moto di rotazione della fetta di terreno, la superficie del versoio doveva avere una forma elicoidale, riducendone in questo modo l’attrito con la possibilità, a parità di potenza di trazione, di approfondire la lavorazione.
La diffusione delle innovazioni trovava nelle istituzioni dedicate allo sviluppo della conoscenza tecnico-scientifica (Accademie e Società agrarie) una sede privilegiata di dibattito e apprendimento e nelle istituzioni vocate all’istruzione e all’assistenza tecnica il luogo idoneo per il trasferimento dell’innovazione. In questo ambito si andò sviluppando una metodologia didattica basata sull’esemplificazione delle macchine e delle attrezzature tramite modelli in scala.

Una raccolta particolarmente significativa per numero di modelli e per varietà di tipi è la Collezione di modelli di macchine e attrezzature agricole del Dip. Territorio e Sistemi Agro-forestali dell’Università degli Studi di Padova.
L'inizio della costituzione di "… una raccolta di macchine e strumenti in modello pel pubblico insegnamento …" risale al periodo della direzione dell'Orto Agrario di Padova da parte dell’abate Luigi Configliachi (1829-1854), probabilmente a seguito di un auspicio formulato dal Ranieri Giuseppe d'Asburgo-Lorena, arciduca d'Austria e primo viceré del Regno Lombardo-Veneto, durante una sua visita a Padova nel 1830.
I modelli sono realizzati in legno, in ferro e, in molti casi, in entrambi i materiali, rispecchiando attentamente la costituzione delle diverse parti
Le dimensioni variano dai 3-4 cm per i modelli più piccoli a oltre il metro per il modello più grande. Le proporzioni dei modelli e dei vari componenti rispettano un preciso rapporto di scala; tale similitudine geometrica è legata non solo alla evidente necessità di ottenere una rappresentazione iconica il più possibile reale dei prototipi, ma anche alla possibile utilizzazione di tali modelli come elementi da cui ricavare le informazioni sulle dimensioni e sui tipi di materiale per riprodurre i prototipi stessi. Infatti, la disponibilità di modelli di macchine e attrezzature dava modo agli artigiani e ai fabbri di ricostruire esattamente i prototipi da cui i modelli derivavano, consentendo così la diffusione delle macchine e attrezzature anche al di fuori delle zone di origine.
Il gruppo di modelli più numeroso è quello degli aratri, composto da 29 pezzi, nel quale è possibile trovare il meglio della produzione europea e americana: gli aratri inglesi costruiti interamente in ferro, il famoso aratro francese Dombasle, uno dei primi efficienti aratri messi in commercio, l'aratro Schwerz, oppure il mescitore del Brandeburgo, gli aratri italiani Lambruschini, Ridolfi, Bertone di Sambuy e Barelli e altri ancora, caratterizzati da peculiarità tecniche singolari per l'epoca.
Da notare il nome di questi modelli, che in molti casi è quello del loro ideatore; si tratta spesso di proprietari terrieri, ministri, generali, abati, ufficiali. Ad esempio, l’aratro Ridolfi, del marchese e senatore Cosimo Ridolfi, fondatore nel 1834 dell'Istituto Agrario di Meleto, oppure l’aratro Lambruschini, dell'abate Raffaele Lambruschini, pedagogo, fondatore assieme a Cosimo Ridolfi e Giovan Pietro Vieusseux del "Giornale Agrario Toscano" (1827), rivolto ai possidenti e ai parroci perché cooperassero al progresso tecnico dell'agricoltura e all'istruzione dei contadini, e ancora l’aratro Sambuy, del generale dell'esercito piemontese Emilio Balbo Bertone di Sambuy, o l’aratro Guilleaume, dell’ufficiale del genio nell’esercito francese Guilleaume. In certi altri casi il nome è quello dell'importatore, come nel caso dell'aratro del Brabante o aratro del Belgio, introdotto in Germania dallo Schwertz, e chiamato appunto aratro Schwertz.

Molto interessanti dal punto di vista etnologico sono le macchine usate per i lavori aziendali, quali i trinciapaglia, le lavatrici per le patate e le rape, le maciulle, i mangani, le arnie, le zangole, i torchi, che consentono di ricostruire un quadro quanto mai completo della cultura agricola dei secoli scorsi.
Essi inoltre sono una valida testimonianza degli sforzi compiuti per facilitare il lavoro dell'uomo nello spirito di quanto considerava Carlo Berti Pichat, autore di quella che è definita "la più monumentale enciclopedia agricola ottocentesca", a proposito della mietitura: "Falciare e mietere costituiscono le due maggiori e laboriose faccende campestri. Liberare il povero lavoratore dalla più grave fatica che gli tocca eseguire nella più ardente stagione, e gli procaccia qualche volta infermità perigliose, sarà veramente il più bel trionfo della Meccanica agraria".

BIBLIO-SITOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Accademia dei Georgofili. https://www.georgofili.it
Accademia Nazionale di Agricoltura. https://www.accademia-agricoltura.it
Reale Società Agraria di Torino. http://www.accademiadiagricoltura.it/index.php
Società Agraria di Lombardia. http://www.agrarialombardia.it
Galigani PF., Aratro: aspetti storici, tecnici, agronomici, In Atti della mostra Evoluzione dell’aratro nella Toscana dei Lorena, Accademia dei Georgofili, Firenze 2002

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Testo a cura di: Raffaele Cavalli, Collezione di modelli di macchine e attrezzature agricole 

4Obiettivo 3 - Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età. La nascita della vaccinazione (Museo di Anatomia Patologica)

L’Obiettivo 3 si prefigge di garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età, attraverso l’accesso diffuso a pratiche di igiene avanzate ed una copertura sanitaria universale, compresa la protezione da rischi finanziari, l’accesso ai servizi essenziali di assistenza sanitaria di qualità e l’accesso sicuro, efficace, di qualità e a prezzi accessibili a medicinali di base e sostenendo la ricerca e lo sviluppo di vaccini e farmaci per le malattie trasmissibili e non trasmissibili.

La vaccinazione contro il vaiolo umano è stata inizialmente praticata inoculando nell'uomo la linfa dalle pustole del "vaiolo vaccino", una malattia simile che colpiva le mammelle dei bovini, che Edward Jenner (1749-1823), medico e chirurgo di Gloucester, scoprì essere in grado di indurre l'immunità al vaiolo umano. La sua scoperta si basava sull'osservazione diretta delle lattaie del suo paese che infettate dal vaiolo bovino risultavano immuni al vaiolo umano, confermata successivamente dai suoi studi.
Sin dalla scoperta della vaccinazione alla fine del Settecento, si ebbe un ampio uso dell'iconografia sul vaiolo come scopo didattico per i vaccinatori. Lo stesso Jenner sentì infatti la necessità di usare immagini delle pustole vaccinali con un doppio scopo: la similitudine tra vaccino e pustola da vaiolo era una prova indiretta dell'efficacia del vaccino mentre allo stesso tempo, la pustola vaccinale era diversa dal vaiolo, in particolare per i suoi effetti lievi e l'evoluzione più sana. Questa era una prova diretta che il vaccino era meno pericoloso dell'inoculazione. Queste teorie divennero ancora più evidenti ed esplicite nelle successive rappresentazioni iconografiche del vaccino.

La collezione del Museo Morgagni, sezione di Anatomia Patologica dell’Università degli Studi di Padova conserva una serie di cere anatomiche raffiguranti le manifestazioni cutanee del vaiolo nell’uomo, nella vacca, nella pecora e nel cavallo risalenti ai primi dell’Ottocento, copie delle quali sono state trovate anche nei Musei di Bologna e Pavia e nell’archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano. Tramite accurate ricerche d’archivio è stato possibile risalire agli autori e agli ideatori delle cere, come anche alle loro finalità didattico scientifiche. Luigi Sacco (1769-1836) fu il medico che identificò nel 1800 una fonte di linfa vaccinica in una mandria di vacche vicino a Varese e con questo prezioso materiale contrastò le epidemie di vaiolo presenti nella zona. Nel 1803, Sacco scriveva che “Per fissare l’attenzione del popolo e particolarmente de’ medici e chirurgi di campagna e delle levatrici, e per allontanare il pericolo di avere risultati dubbi od equivoci, si potrebbero far preparare delle tavolette con disegni ben colorati, oppure ciò che sarebbe anche meglio, avere due braccia di cera, uno con pustole vere vaccine, un altro colle spurie e le altre anomalie: questi disegni dovrebbero essere moltiplicati e mandati in ogni Capo-luogo acciò di quando in quando fossero esaminati da’ professori, ed anche dalle levatrici”. Sacco pubblicò nel 1809 quattro dettagliatissime tavole colorate che rappresentavano le pustole nella vacca, nel cavallo, nella pecora e nell’uomo. Da queste tavole, per volontà di Pietro Moscati (1739-1824), furono create le serie di quattro cere anatomiche, poi spedite a Milano, Pavia, Bologna e Padova, città dove Sacco fu Direttore della Vaccinazione. Di queste quattro cere ne sono conservate tre presso il Museo Morgagni e completa il gruppo una successiva del 1819 eseguita per indicazione del professor Francesco Luigi Fanzago (1764-1836) e rappresentante il vaiolo pecorino, corrispondente sempre alle tavole originali di Sacco.
Tutte le etichette riportate sulle preparazioni riportano la spiegazione dettagliata del modello di cera e corrispondono esattamente con i commenti delle immagini che si trovano nel “Trattato” di Sacco del 1809. Nell’Archivio del Centro per Storia dell’Università di Padova abbiamo trovato un documento interessante, consistente in due lettere spedite dal “Prefetto del Dipartimento della Brenta” al “Reggente della Università di Padova”, che attesta la data precisa in cui i modelli di cera furono ricevuti a Padova dopo essere stati spediti da Milano. Nella prima lettera, datata 28 ottobre 1807, vi era l’annuncio della ricezione di una “cassa”; nella seconda invece vi era il verbale di apertura della cassa stessa redatto in presenza di Floriano Caldani (1772-1836), professore di Anatomia dell’Università di Padova, e del Cancelliere Marcantonio Galvani. La data del documento, 28 ottobre 1807, corrisponde al periodo in cui Moscati era Direttore Generale dell’Educazione Pubblica e Presidente della Magistratura di Sanità, ma soprattutto al periodo di attività di Sacco, successivo alla pubblicazione della “Memoria sul vaccino” del 1803, in cui Sacco dichiarava la necessità della creazione di immagini e modelli di cera, e prima dell’uscita del “Trattato di vaccinazione” del 1809, in cui Sacco pubblicava le “tavolette con disegni ben colorati”. Questo dimostra chiaramente che i modelli di cera ebbero la priorità sulla divulgazione del libro di Sacco e inoltre che la tridimensionalità dei modelli di cera era considerata sufficiente per insegnare la vaccinazione anche senza una dettagliata descrizione come quella nel “Trattato” del 1809. 
 
 
 
Bibliografia
Zampieri F., Zanatta A., Rippa Bonati M., 2011 - "Iconography and Wax Models in Italian Early Vaccination against Smallpox". Medicine Studies, 2, 4, pp. 213-227. ISSN: 18764533; DOI: 10.1007/s12376-011-0057-5.
Zanatta A., Zampieri F., 2014 - "Tre case study del Museo di Anatomia Patologica di Padova: il valore delle ricerche interdisciplinari". In Del Favero L., Fornasiero M., Molin G. (eds.), 2014, "La ricerca nei musei scientifici", Padova, Museologia Scientifica Memorie, 11, ISSN 1972-6848.

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Testo a cura di: Alberto Zanatta e Giovanni Magno, Museo Morgagni sezione di Anatomia Patologica

5Obiettivo 4 – Quando i Sussidi Didattici sono strumenti inclusivi: alcuni esempi dal Museo dell’Educazione

Raggiungere un’istruzione di qualità per tutti è il traguardo a cui tende l’Obiettivo 4, che vuole migliorare la vita delle persone e assicurare loro uno sviluppo equo e inclusivo. È importante riflettere e comprendere come anche nel passato questo fattore sia stato oggetto di studi. Essi hanno prodotto metodi e materiali, che rivisti oggi offrono informazioni e conoscenze utili per far crescere anche l’educazione delle future generazioni. Ne consegue che conservare, studiare e valorizzare quegli strumenti che nel passato hanno contribuito ad un modello educativo inclusivo e di qualità, ci dà oggi un significativo vademecum orientato su possibili orizzonti di crescita sostenibile.
 
Per facilitare l’apprendimento dei bambini, nel tempo, sono stati utilizzati metodi e strumenti diversi, a volte risultato della creatività di singoli, a volte frutto di elaborate teorie pedagogiche.
Da bisogni particolari o legati a un territorio circoscritto si sono spesso generate nel corso della storia pratiche didattico-educative lodevoli, che miravano ad un coinvolgimento immediato degli alunni, a partire dall’età infantile. I sussidi, accompagnati dagli opportuni percorsi didattici, sono stati nel passato e sono ancora oggi, gli strumenti utilizzati dagli insegnanti per favorire l’apprendimento.
 
La ricca collezione di sussidi didattici conservata nel Museo dell’Educazione consente molteplici riflessioni e rappresenta un utile contributo alla conoscenza della scuola di ieri. In questa Tappa ne abbiamo scelti alcuni che meglio hanno svolto il ruolo di istruire in modo inclusivo.
 
Un sussidio prodotto autonomamente dall’insegnante per rispondere alle specifiche esigenze della sua classe è la tombola sillabica, realizzata artigianalmente con materiale povero e destinata all’apprendimento divertente della lettura.
Di grande valore è l’alfabetiere per le scuole rurali realizzato dalla ditta So.to.v. per facilitare la conoscenza delle lettere utilizzando il modellino di quegli strumenti agricoli che potevano essere più familiari per i bambini di campagna.
Molto antico è il pallottoliere-frazioniere esposto nell’aula scolastica del Museo dell’Educazione. Esso offre ai bambini la possibilità di toccare con mano le varie frazioni in cui può essere suddiviso un intero.
La secolare cassetta aritmetica di Tillich con i suoi cubi e parallelepipedi in legno grezzo fu l’anticipazione delle tante scatole coloratissime di regoli, utilizzati ancora oggi nella scuola primaria per far sì che tutti gli alunni raggiungano buoni risultati nello studio dell’aritmetica.
L’apprendimento delle cosiddette tabelline ha rappresentato uno scoglio per intere generazioni di bambini, per questo si è cercato di renderlo più facile e divertente attraverso la tavola pitagorica animata.

Questo panorama non può concludersi senza la citazione di materiali specificatamente realizzati a questo scopo da autorevoli pedagogisti. Infatti, come potremmo dire con Patrizia Zamperlin (fondatrice del Museo dell’Educazione), inclusione ed equità sono parole d’ordine della moderna pedagogia che ha saputo realizzare intorno ad esse non solo riflessioni teoriche, ma anche proposte didattiche ed esperienze innovative.
Tutto questo può essere constatato con particolare efficacia in una protagonista della storia dell’educazione: Maria Montessori. Di questa importante figura il Museo dell’Educazione conserva la pregevole prima edizione de “Il Metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile” pubblicata a Città di Castello nel 1909. Si tratta di un volume di più di 300 pagine corredato da foto dell’epoca e da disegni dei materiali oggi conosciuti nel mondo come “montessoriani”. Tutti inizialmente pensati per educare, attraverso i sensi, bambini che oggi indicheremmo come “diversamente abili”, hanno poi dimostrato la loro grande efficacia se utilizzati in ogni contesto. Emblematica in tal senso è la serie delle cosiddette pesiere che rendono palese un principio chiave, quello dell’autocorrezione.

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Testo a cura di: Mara Orlando, conservatrice Museo dell'Educazione

6Obiettivo 5 - Femminile plurale: storie di donne dal Patrimonio Storico Artistico di Ateneo

L’eliminazione delle discriminazioni nei confronti di donne e ragazze, uno dei traguardi chiave dell’Obiettivo 5, passa anche attraverso il riconoscimento del loro ruolo nella Storia: civile, anzitutto, e poi in particolare universitaria. Da più parti all’interno del nostro Ateneo, specialmente in anni a noi vicini, si sono compiute e si stanno tuttora portando avanti ricerche e proponendo iniziative volte a colmare la “rimozione” del femminile, raccontando la spesso invisibile presenza delle donne nella storia accademica: Elvira Poli (1893-1977), prima donna laureata in ingegneria a Padova; Silvia De Marchi (1897-1936), brillante allieva del primo docente di psicologia patavino Vittorio Benussi; l’educatrice e filantropa Stefania Etzerodt sposata Omboni (1839-1917) o la fisica sperimentale Milla Baldo Ceolin (1924-2011) sono solo poche emergenze di un panorama quantitativamente e qualitativamente rilevante, ancora in gran parte da esplorare.
 
La tappa ci invita a conoscere altre figure femminili, le cui vicende sono variamente intrecciate a quelle del patrimonio storico-artistico del nostro Ateneo. Incontriamo per prime le “PADRONE DI CASA”: due nobili dame, che abitarono i palazzi storici oggi divenuti prestigiose sedi universitarie. Oscurate dal prevaricante interesse degli studiosi per i loro consorti, le storie di queste donne, quando finalmente ricostruite, potranno certo aiutarci a comprendere precipue scelte iconografiche e soluzioni architettoniche talora inattese.
Si pensi al ruolo che dovette aver giocato Elisabetta Duodo, figlia di Pietro, nel complesso decorativo di Palazzo Cavalli: sposa di Federico Cavalli in data 9 settembre 1673, Elisabetta portava la cospicua dote di 40.000 ducati. La nuova disponibilità economica, pur nel procrastinarsi dei pagamenti, giustifica l’impegnativo cantiere di ammodernamento e abbellimento del palazzo patavino, il cui ciclo iconografico, affidato dapprima al pittore padovano Michele Primon e quindi ai due artisti emiliani Giacomo Parolini e Anton Felice Ferrari insieme al maestro francese Louis Dorigny, risalta per la rilevante attenzione ai soggetti femminili. Nel 1730, vedova e senza eredi maschi - Jacopo era morto in fasce, come le sorelle Cecilia e Chiara -, in rispetto del fidecommisso imposto dal patriarca Marino Cavalli nel lontano 1571, Elisabetta fu costretta a cedere la proprietà ai fratelli Marino Antonio e Giacomo Cavalli, la cui figlia, Elisabetta, giovane “di singolarissime virtù”, nel 1743 portò in dote Palazzo Cavalli al patrizio Girolamo Francesco Bollani.
La fitta corrispondenza tra committente e architetto ben precisa invece la centralità di Francesco Revedin nelle scelte decorative compiute da Giambattista Meduna per la villa di Castelfranco Veneto. La ricostruzione delle vicende biografiche della moglie Teresa Comello (1832-1882), figlia del ricco possidente Valentino e dal 6 febbraio 1850 sposa del conte, potrà però forse aiutare a risolvere uno dei “misteri”, legati a questo complesso: in contatto con l’intelligentia castellana dell’epoca, dal «filoglotto» Jacopo Trevisan ai coniugi Armando ed Erminia (Fuà) Fusinato, fino all’esilio toscano del 1864 suoi assidui ospiti, la «sonnacchiosa» Teresa risulta essere stata una apprezzata dilettante. Alla morte di Francesco (22 gennaio 1869) ella ottenne in usufrutto non soltanto diversi ambienti del palazzo padronale, altrimenti di proprietà dell’erede universale Fanny Bassetti Rinalsi, ma anche un «Teatro e […] locali addetti, eseguiti nel Borgo di Treviso in Castelfranco al mappale N. 351», di cui non resta traccia se non nei documenti.
 
Attraverso Villa Revedin, poi Rinaldi e infine Bolasco, conosciamo anche la prima delle nostre “DONATRICI”: Renata Mazza (1888-1989), figlia del generale Enrico Mazza e di Margherita Pegolo, nel 1913 convolata a nozze con il conte Pietro (Rino) Bolasco Piccinelli. Il 10 marzo 1967 Renata donava in lascito testamentario alla nostra Università la villa con le sue adiacenze e il meraviglioso giardino storico, realizzati su quelle che un tempo erano state le proprietà Cornaro “al Paradiso”.
Spetta invece ad Augusta Luzzato Dina (1898-1989), dal 1923 sposa del marchese Antonio de Buzzaccarini, la donazione all’Ateneo dell’ex palazzo Selvatico-Estense in via Vescovado, oggi una delle sedi DiSSGeA. Figlia di Jacopo e Giulia Rameg, cresciuta in una delle più ricche famiglie israelitiche dell’epoca, dopo la perdita dell’unico figlio Galeazzo Augusta esercitò con successo la pratica scultorea con il nome d’arte Galastena: fu allieva dapprima di Paolo Boldrin e quindi di Emilio Greco, partecipò alle Biennali Trivenete e a quella bolognese d’Arte Sacra, alle Mostre Internazionali del Bronzetto a Padova e al Salon International d’Art Sacré del Musée d’Art Moderne di Parigi. L’Università conserva diversi suoi lavori, tra cui i busti di Giovanni Battista Belloni e di Ernesto Belmondo presso la Clinica Neurologica, di Arturo Cronia nella Basilica di Palazzo Bo, di Carlo Diano a Palazzo Liviano, di Luigi Stefanini presso la Biblioteca di Filosofia in Palazzo del Capitanio e del Rettore Giuseppe Gola in Orto Botanico; da ricordare inoltre le quattordici formelle a bassorilievo bronzeo della Via Crucis, che dal 1957 ornano le pareti della Cappella della Clinica Ostetrica.
Meritano quindi di essere ricordati i “Comitati di Signore e Signorine” costituitisi presso le città di Trieste, Trento, Fiume, Vicenza, Udine e Verona con lo scopo di “concretarsi una forma di partecipazione loro alle solennità per il VII centenario di questo studio patavino”: era, ovviamente, il 1922 e grazie al loro contributo “le varie Facoltà e Scuole universitarie” poterono essere dotate “di un proprio labaro da usare dagli studenti nelle funzioni accademiche”. Nella stessa occasione le “Signore Padovane” fecero invece dono all’Università di due mazze d’argento, conformi a quelle antiche trafugate durante i rivolgimenti che erano seguiti alla caduta della Repubblica Veneta: tra le sottoscrittrici, accanto alle rappresentanti dell'élite cittadina, molte le figure più strettamente legate all’Ateneo, come Fanny Pontil moglie del geologo e paleontologo Giorgio Dal Piaz, Giuseppina Turazza figlia dell’ingegnere idraulico Domenico e moglie del matematico Antonio Favaro o l'archeologa Clelia Vinciguerra, consorte di Carlo Anti, l’archeologo e futuro Rettore allora appena giunto a Padova.
 
Nei grandiosi lavori di ampliamento e rinnovamento di Palazzo Bo, avviati sotto la sua guida, eccezionale e pressoché misconosciuta la partecipazione delle “ARTISTE”, a partire dal contributo dato da Lisa Ponti (1922-2019) all’impresa pittorica del padre Gio. Primogenita dell’architetto e designer milanese, Lisa fu sua fedele collaboratrice non solo alla redazione delle riviste Stile e Domus, ma anche nella travagliata decorazione a fresco della Scala del Sapere (1941), per la quale troppo spesso vengono citati come unici aiutanti Giovanni Dandolo e Fulvio Pendini.
Ancora ragioni famigliari giustificano la presenza negli ambienti del Rettorato di un’opera di Mimì (Emma) Buzzacchi (28 agosto 1903- 16 giugno 1990), aristocratica medolese trasferitasi giovanissima a Ferrara, dove frequentò scrittori e artisti come Corrado Govoni, Giorgio Bassani, Filippo De Pisis e Achille Funi: a quest’ultimo in particolare la unì un profondo rapporto umano e professionale, consolidato nella seconda metà degli anni Trenta dalla comune partecipazione al programma di opere pubbliche in Libia promosso dal governatore Italo Balbo, sodale del giornalista Nello Quilici, che Mimì aveva spostato nel 1929. Proprio al marito e a Balbo, periti insieme nel 1940 durante un volo aereo su Tobruk, l’artista scelse di dedicare un doppio ritratto su tavola, inizialmente ospitato nello sguancio sinistro del portale d’accesso all’Aula Magna dalla Sala dei Quaranta, che evidenziasse i legami dei due con l’Ateneo patavino (Quilici in quanto docente, Balbo perché insignito nel 1933 di una laurea honoris causa in Ingegneria).
Spostandoci quindi in un altro dei cantieri promossi da Anti, un’ulteriore occasione di riflessione sul contributo artistico delle donne alle imprese dell’Ateneo viene offerto dal grandioso affresco di Massimo Campigli nell’atrio di Palazzo Liviano: nel tratto sinistro, al di sopra del pianerottolo della prima rampa di scale, l’artista raffigura se stesso, il committente (appunto, Carlo Anti) e l’architetto (Gio Ponti, che così pervicacemente aveva promosso il suo intervento); ma è presente anche una quarta figura, in abiti maschili e con in mano dei disegni progettuali. È la scultrice comasca Giuditta Scalini (1912-1966; dal 1936, in Campigli), il cui ruolo nella realizzazione dell’affresco è però ancora tutto da precisare.   

L’ostracismo nei confronti delle artiste all’interno del grande cantiere universitario si inserisce nella generale profonda regressione della condizione femminile in Italia durante il Ventennio, già oggetto di ampi studi.
Contribuisce ulteriormente alla diffusione dell’ideale muliebre fascista il tema proposto nella Sala delle Studentesse, che affaccia sul Cortile Nuovo di Palazzo Bo: affidato al pittore padovano Antonio Morato, l’affresco rappresenta, secondo le indicazioni di Anti, “tre diversi tipi della femminilità studiosa”. L’apparente apertura a un diverso ruolo della donna rispetto a quello di moglie e madre esemplare, imposto dal Regime, viene subito negata dall’associazione alle figure di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia e Gaspara Stampa di attributi tesi a risaltarne le virtù “donnesche”: della “poetessa appassionata” si apprezza la dedizione alla poesia, e all’amore; della “pensatrice profonda” l’impegno nella filosofia, e nelle opere di carità. Il “programma di vita” per eccellenza resta in tutti i casi quello rappresentato dalla “grande Madre romana”, la colta Cornelia genitrice dei Gracchi, che è posta in primo piano entro un’edicola con alla base la lapalissiana epigrafe “Domi mansit / lanam fecit”. Per la giovane studentessa fascista la formazione universitaria non era dunque funzionale all’assunzione di un ruolo pubblico né doveva risultare motivo di vanto personale, quanto limitarsi a nobile complemento di un’esistenza votata alla famiglia, all’educazione dei figli, alla custodia del focolare.
 
In questo veloce percorso attraverso la rappresentazione delle donne del patrimonio storico-artistico di Ateneo una sezione a sé avrebbero meritato anche “LE STUDIOSE”: le prime storiche dell’arte che con le loro ricerche, i loro scritti, la loro passione hanno saputo dar voce ai capolavori, di cui siamo circondati, offrendone inedite narrazioni. Ciò che ci siamo proposti è però soltanto un primo dissodamento di un terreno quanto mai fertile, sorprendentemente plurale.

Biblio-sitografia di riferimento

Per le figure e le opere approfondite nelle schede reperto si rinvia alla bibliografia lì segnalata. 

Una puntuale descrizione dei labari, oggetto di un recente restauro, in: https://www.ottocentenariouniversitadipadova.it/storia/i-labari-della-sa.... La documentazione relativa alla consegna è conservata presso l’Archivio Generale di Ateneo, presso cui è consultabile anche l’atto di consegna delle mazze d’argento e l’Elenco delle signore sottoscrittrici per le mazze d’argento (fasc. 60). 

Su Mimì Quilici, cfr. R. Picello, Mimì Quilici Buzzacchi a Ferrara tra arte e critica 1921-1942, in “tecLa. rivista di temi di critica e Letteratura artistica”, n. 6, 22 dicembre 2012, pp. 128-146, con relativa bibliografia. In merito alla vicenda relativa al ritratto di Quilici e Balbo, cfr. la sezione relativa all’artista in Il miraggio della concordia. Documenti sull’architettura e la decorazione del Bo e del Liviano: Padova 1933-1943, a cura di Marta Nezzo, Canova, Treviso 2008, pp. 806-812. 

Tra gli interventi di restituzione del ruolo femminile nella storia dell’Ateneo, si segnalano il recente Raccontami di lei. Ritratti di donne che da Padova hanno lasciato il segno, a cura della redazione de Il Bo Live, Padova University Press, Padova 2020; e di prossima uscita per l’editore Donzelli, L’Università delle donne. Accademiche e studentesse dal Seicento a oggi, a cura di Andrea Martini e Carlotta Sorba. 

I profili biografici delle studiose segnalate a introduzione del presente contributo si possono consultare ai seguenti indirizzi: 
https://www.elvirapoli-unipd.it/
https://www.dpg.unipd.it/sites/dpg.unipd.it/files/13_silviademarchi.pdf
https://www.museoeducazione-didattica.it/stefania-omboni
https://ilbolive.unipd.it/it/news/milla-nuova-fisica-padova

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Testo a cura di: Chiara Marin, Isabella Colpo, Maria Cecilia Lovato, Centro di Ateneo per i Musei

7Obiettivo 6 - Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua (Collezione di Idraulica - Dicea)

Poter disporre di acqua facilmente accessibile e pulita è un aspetto essenziale del mondo in cui vogliamo vivere. Il nostro pianeta possiede sufficiente acqua potabile per raggiungere questo obiettivo, ma a causa di infrastrutture scadenti o cattiva gestione economica, ogni anno milioni di persone, di cui la gran parte bambini, muoiono per malattie dovute ad approvvigionamento d’acqua, servizi sanitari e livelli d’igiene inadeguati. La carenza e la scarsa qualità dell’acqua, assieme a sistemi sanitari inadeguati, hanno un impatto negativo sulla sicurezza alimentare, sulle scelta dei mezzi di sostentamento e sulle opportunità di istruzione per le famiglie povere di tutto il mondo.  Tra i traguardi previsti dall’Obiettivo 6, troviamo l’ottenere entro il 2030 l’accesso universale ed equo all’acqua potabile sicura ed economica per tutti e l’accesso ad impianti sanitari e igienici adeguati ed equi per tutti.
Se per le nostre città tutto questo è al giorno d’oggi un fatto consolidato, non dobbiamo dimenticare che non è sempre stato così, e che le stesse problematiche che l’Obiettivo 6 cerca di risolvere sono state oggetto di dibattito nella Padova dell’Ottocento. Infatti, le vicende del primo acquedotto moderno della città presero avvio solamente dopo l’Unità d’Italia, quando per l’appunto la classe dirigente cittadina maturò la piena consapevolezza della critica situazione sanitaria presente in città, e che l’unica soluzione al problema fosse la distribuzione d’acqua potabile alla popolazione. Questo era possibile solamente attraverso la costruzione di un moderno acquedotto pubblico. Vennero formate innanzitutto delle commissioni incaricate dello studio delle acque potenzialmente utilizzabili e della valutazione dei progetti presentati. Se la scelta delle sorgenti o delle risorgive presentò aspetti delicati e diede origine vari scontri, dal lato tecnico, i progressi della tecnologia e della capacità delle imprese di costruzioni resero perfettamente risolvibili i problemi legati alla captazione, adduzione e distribuzione dell’acqua. Finalmente, nel 1885 la situazione arrivò a una svolta: vennero scelte le fonti di Dueville e Camisino (nel Vicentino) e venne concesso per sessant’anni il diritto esclusivo della fornitura di acqua potabile alla Società Veneta per Imprese e Costruzioni pubbliche di Stefano Breda, che in cambio si incaricò della costruzione dell’acquedotto.
Tra gli esperti che vennero chiamati a dare un parere sulle in merito al futuro acquedotto padovano troviamo Domenico Turazza, padre di Giacinto Turazza, che dal 1892 divenne direttore del Gabinetto di Idrometria dell’Università di Padova e che arricchì enormemente il corredo strumentale destinato all’insegnamento delle materie idrauliche. Tra gli strumenti prettamente didattici, troviamo vari oggetti legati alle condutture idrauliche e agli acquedotti, tra i quali quelli qui presentati.

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Testo a cura di: Fanny Marcon

8Obiettivo 7 - Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni. Esempi dal Museo Giovanni Poleni: i motori elettrici.

L’energia è un elemento centrale per quasi tutte le sfide e le opportunità più importanti che il mondo si trova oggi ad affrontare. Che sia per lavoro, sicurezza, cambiamento climatico, produzione alimentare o aumento dei redditi, l’accesso all’energia è essenziale. Tra i traguardi previsti dall’Obiettivo 7 troviamo anche garantire entro il 2030 l’accesso a servizi energetici che siano convenienti, affidabili e moderni e accrescere la cooperazione internazionale per facilitare l’accesso alla ricerca e alle tecnologie legate all’energia pulita – comprese le risorse rinnovabili, l’efficienza energetica e le tecnologie di combustibili fossili più avanzate e pulite – e promuovere gli investimenti nelle infrastrutture energetiche e nelle tecnologie dell’energia pulita.

Per quanto riguarda la storia dell’elettricità, una svolta epocale nella produzione di energia si ebbe nel 1821, quando Michael Faraday  costruì un apparato in cui un circuito percorso da una corrente in presenza di un campo magnetico si metteva a compiere un movimento di rotazione. Si dimostrava così per la prima volta la possibilità di convertire energia elettrica in energia meccanica, e si apriva la strada alla costruzione di motori elettrici, di cui vennero proposti diversi modelli negli anni successivi. Alcuni modelli di motore vennero successivamente proposti, in particolare da Joseph Henry nel 1831, William Ritchie nel 1833 e M. H. Jacobi nel 1834.   A Padova, negli anni trenta dell’Ottocento Salvatore Dal Negro, professore di fisica presso l’Università, pubblica la descrizione di diversi tipi di motori elettrici. Sul momento i suoi strumenti non conseguono un particolare successo, ma un quarantennio dopo Dal Negro viene accreditato come uno dei primi inventori di motori elettrici al mondo: alcuni autori lo definiscono addirittura come il primo inventore in assoluto!
Nel corso della nostra tappa, andremmo alla scoperta di questi primissimi motori elettrici.

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Testo a cura di: Sofia Talas, conservatore del Museo Giovanni Poleni, e Fanny Marcon

9Obiettivo 8 - Minerali e gemme per il nostro benessere: a quale prezzo? (Museo di Mineralogia)

I minerali sono sostanze cristalline che si rinvengono allo stato naturale. Chiunque ha modo di familiarizzare con i minerali; essi compongono le rocce, le montagne, la sabbia marina, il terreno dei giardini. Molti dei prodotti che utilizziamo normalmente sono composti da minerali. Le paste dentifrice ad esempio contengono microscopici cristalli di mica, di calcite e di fluorite, mentre nei detersivi sono presenti additivi come calcite, dolomite, argille e zeoliti. I minerali sono i componenti delle meteoriti e dei pianeti, mentre le gemme non sono altro che frammenti grezzi di cristalli, particolarmente trasparenti e/o colorati, tagliati in modo da esaltarne la brillantezza e la trasparenza.
I minerali rivestono una grande importanza: fin dalla preistoria hanno segnato le tappe dell’evoluzione culturale dell’uomo attraverso l’uso dei metalli. Oggi sono i principali componenti degli acciai e delle leghe speciali, delle apparecchiature elettroniche e di comunicazione, e trovano applicazione nell’industria spaziale e nella produzione di una grande quantità di oggetti di uso comune. 

L’estrazione di minerali come materie prime per uso industriale e civile da sempre richiede la mano dell’uomo che, con fatica, estrae dalla roccia la materia prima, mettendo a volte a repentaglio anche la propria vita, operando in miniera o in condizioni ambientali proibitive. In Italia, ad esempio, la coltivazione dei depositi minerari di zolfo della Sicilia ha origini antichissime e ha avuto  particolare sviluppo tra la metà Settecento e la seconda metà del Novecento. Durante tutto il periodo di coltivazione delle numerosissime miniere siciliane lo sfruttamento minorile dei bambini, “i carusi”, fu una vera e propria piaga sociale, legata alle condizioni di estrema povertà in cui vivevano all’epoca la maggior parte delle famiglie siciliane dedite all’estrazione dello zolfo. Tuttavia sono proprio i metodi di coltivazione manuali di queste miniere che hanno permesso la preservazione di molti, eccezionali campioni di zolfo in cristalli, acquisiti per arricchire le collezioni mineralogiche private e pubbliche di tutto il mondo. 

Anche nelle miniere inglesi della regione del Cumberland la situazione lavorativa  era nell’Ottocento particolarmente precaria. Per arrotondare il loro misero salario, i minatori erano soliti vendere i migliori campioni mineralogici estratti dalle miniere a ricchi commercianti inglesi. Già agli inizi del XIX secolo il collezionismo mineralogico era infatti assai attivo in Inghilterra, soprattutto tra le famiglie di alto rango: non potevano mancare classici esemplari, come le fluoriti in perfetti cristalli di abito cubico di dimensioni centimetriche, vetrose e di un bellissimo colore verde o viola.

Anche l’ematite è un minerale piuttosto comune in natura, utilizzato nella produzione di acciai; tuttavia non è facile rinvenire questo ossido di ferro in esemplari perfetti, ben cristallizzati e di dimensioni centimetriche. La regione di Itabira in Brasile è fin dai primi del Novecento una delle aree minerarie più intensamente sfruttate per l’estrazione di questo minerale, come lo fu, in passato, anche l’area mineraria presso l’Isola d’Elba. Sia Itabira, sia l’Isola d’Elba hanno fornito tra i migliori esemplari cristallizzati di ematite a scopo collezionistico al mondo. Anche in questo caso è facile immaginare quali dovessero essere le condizioni lavorative in Brasile, in cui i minatori, privi di qualsiasi diritto, lavoravano con turni massacranti e in condizioni di estrema povertà in un ambiente ostile, dove il tasso di mortalità per malattie, malaria e incidenti sul lavoro era altissimo.

L’estrazione di minerali da collezione era una pratica assai in uso anche nella regione alpina fin dal Settecento: i grandi cristalli di quarzo presenti nella regione alpina svizzera venivano poi portati a Milano, dove gli artigiani lavoravano questi oggetti naturali per trasformarli in bellissimi manufatti ad uso delle ricche corti europee. Non solamente il quarzo, ma anche altri minerali venivano raccolti sulle Alpi per abbellire le  ricche collezioni mineralogiche europee, come testimonia la splendida raccolta storico-mineralogica tuttora conservata presso il museo di Storia Naturale di Vienna. Uno storico esemplare di apatite proveniente dalla catena delle Alpi orientali presente nel Museo di Mineralogia di Padova presenta un duplice interesse: da una parte rappresenta un classico minerale da collezione rinvenibile all’interno di fessure presenti lungo la catena delle Alpi orientali; dall’altra ha un sensibile valore storico-mineralogico in quanto fu raccolto, nei primi del Novecento, in una fessura dagli “strahler austriaci”. “Strahler” è un termine tedesco, con cui si definiscono i cercatori di cristalli di quarzo, che durante il periodo estivo si guadagnavano da vivere rifornendo le grandi corti europee di preziosi cristalli rinvenuti a quote elevate nelle rocce della catena Alpina.

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Testo a cura di: Alessandro Guastoni, conservatore del Museo di Mineralogia

10Obiettivo 9 - Promuovere l’innovazione ed una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile. Esempi dal Museo Bernardi e dalle collezioni tecnico-scientifiche.

Lo sviluppo industriale inclusivo e sostenibile è la prima fonte di generazione di reddito; esso permette un aumento rapido e sostenuto del tenore di vita delle persone e fornisce soluzioni tecnologiche per un’industrializzazione che rispetti l’ambiente. Il progresso tecnologico è alla base degli sforzi per raggiungere obiettivi legati all’ambiente, come l’aumento delle risorse e l’efficienza energetica. Senza tecnologia e innovazione, non vi sarà industrializzazione, e senza industrializzazione non vi sarà sviluppo. Tra i traguardi dell’Obiettivo 9 troviamo anche quello di promuovere un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e aumentare significativamente, entro il 2030, le quote di occupazione nell’industria e il prodotto interno lordo e aumentare la ricerca scientifica, migliorare le capacità tecnologiche del settore industriale in tutti gli stati nonché incoraggiare le innovazioni.
Grazie agli splendidi oggetti conservati nel Museo di Macchine "Enrico Bernardi", nel Museo Giovanni Poleni e nelle collezioni scientifico-tecnologiche diffuse dell'Università di Padova possiamo raccontare una pagina interessante della storia dell'industrializzazione, o meglio, della mancata industrializzazione del Veneto nel corso del XIX secolo. Nelle collezioni del Dipartimento di Ingegneria, Civile Edile e Ambientale e nel Museo Poleni sono conservati numerosissimi strumenti costruiti da "artigiani della scienza", ovvero i meccanici che lavorarono per l'Università di Padova, in particolar modo per il Gabinetto di Fisica e la Specola, o per le scuole superiori della regione. Nonostante le abilità di questi artigiani, e l'importantissimo ruolo da essi svolto per lo sviluppo e la diffusione delle conoscenze scientifiche, in Veneto non si sviluppò mai una fiorente industria di costruzione di strumenti di precisione, a differenza di quanto avvenuto per esempio in Francia o in Germania. Perché? Proprio a causa della mancanza di finanziamenti e di sostegno statale, oltre che per la situazione di arretratezza generale in cui versava la regione. Il caso più eclatante di mancato sviluppo dovuto ad un contesto sfavorevole e alla mancanza di investimenti è sicuramente quello legato a Enrico Bernardi, genio inventivo e pioniere dell'automobile italiana. Bernardi fondò, insieme agli ingegneri Giacomo Miari e Francesco Giusti, la prima casa automobilistica italiana nel 1894. L'azienda doveva produrre e commercializzare la vettura progettata da Bernardi stesso, ma venne messa in liquidazione già nel 1901, decretando il fallimento dell'iniziativa. Bernardi si trasferì quindi a Torino, chiamato a lavorare per una ditta che ebbe tutt'altra fortuna: la FIAT. 

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Testo a cura di: Fanny Marcon

11Obiettivo 10 - Ridurre l’ineguaglianza (Collezioni del Centro di Sonologia Computazione)

L'Obiettivo 10 si prefigge di ridurre l'ineguaglianza all'interno di e fra le nazioni attraverso il coinvolgimento delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile – economica, sociale e ambientale. Per ridurre la disparità, le politiche dovrebbero essere universali e prestare attenzione ai bisogni delle popolazioni svantaggiate ed emarginate. Il punto 10.2 prevede che, entro il 2030, venga potenziata e promossa l’inclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, razza, etnia, origine, religione, stato economico o altro. 

In questo senso, sono la storia stessa e le ricerche attuali del CSC- Centro di Sonologia Computazionale a essere un esempio di inclusività. Nella seconda metà del secolo scorso, numerosi musicisti e compositori scoprono il potenziale delle tecnologie digitali, adottando il computer come naturale evoluzione degli strumenti elettronici analogici, sviluppati sin dagli anni Quaranta nelle stazioni radio e utilizzati nella musica elettroacustica (concreta, elettronica, tape music). Con il primo diffondersi degli elaboratori nei centri di ricerca delle Università, giovani compositori riescono a studiare tanto la musica, quanto l’informatica (nascono: negli USA, il Computer Music Center, CMC, Columbia University; in Italia, la divisione di informatica musicale al Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico, al CNR di Pisa). Contemporaneamente, ricercatori e studenti di ingegneria e di scienze fisiche e matematiche vengono coinvolti in inattesi progetti artistici.
Negli anni Sessanta, a Padova, nasce un gruppo di ricercatori e musicisti (tra cui Giovanni De Poli, James Dashow, Carlo Offelli, Gian Antonio Mian, Graziano Tisato, Alvise Vidolin), che lavora sulla computer music, guidati da Teresa Rampazzi (1914-2001), una delle pochissime compositrici donne di musica elettronica al mondo (la parità di genere non è mai stato un problema al CSC!) e Giovanni Battista Debiasi (1928-2012), professore di Elettronica Applicata all’Università di Padova, appassionato di musica, in particolare del repertorio organistico e studioso di musica elettronica sin dagli anni cinquanta. Tali attività, nel 1979, vengono formalizzate con l’istituzione del Centro di Sonologia Computazionale (CSC) dell’Università di Padova.
Da sempre il CSC è votato all’interdisciplinarietà: nato da uno straordinario intreccio di saperi, tra scienze dure e discipline umanistiche (tra cui ingegneria dell’informazione, informatica, acustica, fisica, matematica, filosofia, archivistica, musica, musicologia, psicologia, scienza dei materiali).
Anche oggi il CSC è uno dei più importanti centri a livello internazionale ed è un protagonista nella scena musicale contemporanea, con migliaia di pubblicazioni scientifiche (c’è un archivio aggiornato delle pubblicazioni del CSC in Research Padua Archive, https://www.research.unipd.it, dove è possibile effettuare ricerche per nome dell’autore o per parole chiave), più di duecento importanti produzioni di computer music (vedi: http://csc.dei.unipd.it/multimedia-works), oltre a brevetti e attività di alta formazione.
Nel corso del tempo le attività del CSC si sono articolate in quattro aree principali: ricerca scientifica, ricerca musicale, produzione ed esecuzione di opere musicali, alta formazione e divulgazione.
Al CSC ricerca scientifica e sperimentazione musicale sono considerate allo stesso livello: una composizione è trattata come una pubblicazione scientifica (o un brevetto) e non viene supportata sulla base dell’affiliazione o del particolare orientamento estetico, del compositore, bensì in funzione del suo grado di innovazione, della serietà della pianificazione e della professionalità nella realizzazione dell’opera. Ciò deriva anche dal fatto che il direttivo del CSC è composto da scienziati, più interessati allo sviluppo della ricerca nella musica e nella scienza, piuttosto che all’evoluzione espressiva di un singolo Maestro. In questo senso, ciascun compositore, diverso per estrazione e tensione estetica, è messo nelle migliori condizioni per poter lavorare bene a Padova, trovando sempre un ambiente aperto, inclusivo e flessibile, in grado di soddisfare le diverse esigenze tecniche e musicali. Le sole condizioni poste ai compositori interessati a collaborare con il CSC sono di voler indagare nel campo della musica sperimentale colta e di voler portare nuovi contributi e idee innovative.
Nel corso degli anni, spinta dai nuovi interessi dei ricercatori via via entrati a far parte del gruppo e dal progresso delle tecnologie, la ricerca del CSC si è evoluta in diverse direzioni: dallo sviluppo di sistemi interattivi per sintetizzare la voce e i suoni, al centro degli studi condotti negli anni Settanta, allo sviluppo di innovativi algoritmi di sintesi del segnale sonoro basati sulla simulazione del meccanismo fisico di produzione del suono, su cui si è concentrata la ricerca negli anni Ottanta, quando l’interesse dei musicisti per lo spazio come parametro compositivo ha guidato anche ricerche sulla riverberazione e sulla spazializzazione multicanale e binaurale del suono. Negli anni Novanta l’attenzione si è spostata all’esplorazione dell’informazione espressiva e all’esecuzione musicale per capire cosa rende espressiva un’interpretazione musicale e quindi come rendere nella sintesi del suono le molte sfumature espressive che il musicista introduce mentre suona.
Più recentemente, sotto la guida di Sergio Canazza (direttore dal 2015, succeduto a Giovanni De Poli), il CSC ha portato avanti innovativi studi sull’interazione persona-macchina basata sul canale comunicativo non verbale sulle tecnologie atte a favorire l’inclusione di studenti e lavoratori con disabilità, oltre che il dialogo tra diverse culture e popolazioni (produzione di nuovi eventi artistici, conservazione e valorizzazione del patrimonio musicale, creatività computazionale).

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Testo a cura di: Sergio Canazza, Collezioni del Centro di Sonologia Computazionale

12Obiettivo 11 - Città e comunità sostenibili (Museo di Geografia)

La ricerca geografica è da sempre interessata allo studio delle città non solo perché esse sono “casa degli uomini” ma anche per il fatto che esse rappresentano l’evidenza tangibile dell’organizzazione territoriale, sociale ed economica delle comunità che le abitano, così come dei processi politici e di potere che ne hanno via via caratterizzato l’amministrazione.
Pensiamo alla diversità che intercorre, ad esempio, tra le città medievali, le città ideali del Rinascimento, le company town e le grandi metropoli moderne: ognuna di esse ha affrontato diversamente, di volta in volta, le complesse questioni urbanistiche (come la pianificazione territoriale, la gestione degli accessi, dei traffici e dei servizi), socio-economiche (come la presenza di luoghi di produzione, vendita, aggregazione, cura, educazione, cultura, ecc.) e ambientali (come la cura e la valorizzazione degli spazi aperti e verdi o la gestione delle acque, dei rifiuti e dell’inquinamento) cui ogni città è chiamata a dare risposta.

L’organizzazione, la pianificazione e la valorizzazione degli spazi aperti sono elementi che anche nella città di Padova hanno ricevuto grande attenzione. Ciò emerge chiaramente dalla lettura dell’impianto cittadino finemente cartografato nel 1784 da Giovanni Valle nella carta che porta il suo nome, in cui non solo è possibile osservare l’attenta gestione delle acque in città, ma anche constatare l’esistenza di ampi spazi verdi distribuiti all’interno delle mura cittadine (non solo giardini interni ai palazzi o aree verdi pubbliche, ma anche ampie aree dedicate alla coltivazione) e la presenza di numerosi alberi, piantati in filari, sia nelle aree verdi sia in quelle più densamente abitate. La pianificazione e l’equilibrio tra gli elementi presenti in città, non è ad ogni modo un indicatore sufficiente. Non si tratta, infatti, semplicemente di garantire un ambiente di vita dignitoso e funzionale agli uomini e alle donne che abitano le città, ma anche di assicurarsi che il raggiungimento di questo obiettivo non vada a depauperare la qualità degli ambienti e della vita di chi vive al di fuori di essa.

La sfida è impegnativa. Ad oggi le città occupano circa il tre per cento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse globali e sono responsabili del 75 per cento delle emissioni di gas. E il trend non accenna a ridursi, anzi: la popolazione che vive in città negli ultimi quarant’anni è più che raddoppiata arrivando a rappresentare oggi più della metà della popolazione mondiale, con stime che indicano questa percentuale in crescita fino al 70 per cento entro il 2050.
Questa crescita ha risvolti che possono essere letti secondo diversi punti di vista, sia positivi che negativi.
Può essere utile, infatti, ricordare che le città costituiscono il motore di economie locali e nazionali (sede di più dell’80 per cento delle attività economiche globali). Esse rappresentano il contesto ideale in cui cercare di coniugare benessere, servizi e una progressiva riduzione dell’impronta ecologica di singoli e comunità. Se inizialmente solo i grandi centri internazionali come Londra riuscivano ad offrire quei contesti vibranti capaci di attirare e sostenere, in linea con l’Obiettivo 11, la sperimentazione delle soluzioni più innovative nel campo del risparmio energetico, della gestione dei rifiuti e della riduzione dell’inquinamento, oggi le cose stanno cambiando. Grazie all’iniziativa European Green Capital promossa dalla Commissione Europea, ad esempio, tutte le città europee sono stimolate a porsi e a raggiungere ambiziosi obiettivi nell’ambito della salvaguardia ambientale e dello sviluppo economico sostenibile.

Tuttavia, se si considera il crescente tasso di consumo di suolo in Italia e in particolare in Veneto, risulta evidente che il degrado del territorio e la perdita delle funzioni dei nostri ecosistemi continuano a un ritmo insostenibile. Secondo il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente dell’ISPRA, nel 2020 ogni secondo quasi due metri quadrati di aree agricole e naturali sono stati sostituiti da nuovi cantieri, edifici, infrastrutture o altre tipologie di coperture artificiali. Tra gli effetti immediati di questa implacabile cementificazione del territorio vi è una crescente impermeabilizzazione e artificializzazione del suolo che a sua volta concorre a rendere il territorio più vulnerabile verso gli eventi atmosferici estremi. È del resto sotto gli occhi di tutti come fenomeni quali burrasche e temporali stiano aumentando in frequenza ed intensità. E non si tratta solo di nubifragi capaci di provocare vaste inondazioni ed esondazioni di fiumi, ma anche di raffiche di vento (come l’impressionante tempesta Vaia del 2018), di siccità e di ondate di calore sempre più forti e prolungate. Di tutti questi, ad ogni modo, quelli legati alle precipitazioni restano i fenomeni più frequenti e più pericolosi per la vita dell’uomo. Una menzione particolare va infatti alla drammatica alluvione del 1966 che interessò tutto il Veneto e in particolare le province di Belluno, Rovigo, Venezia, Padova e Treviso. Anche i geografi di Padova – abituati a confrontarsi con lo studio dei fenomeni atmosferici attraverso l’uso di strumenti quali il pluviografo e il barotermoigrografo, contribuirono a studiare quel drammatico episodio mappandone l’impatto sui centri abitati.

La rapida crescita demografica e il progressivo aumento del “peso” delle città su scala globale ci impone in conclusione di riflettere sul ruolo cruciale che esse giocano in qualità di laboratori strategici per lo studio, la sperimentazione e la conquista di un futuro più sostenibile.
Se il pericolo in passato è stato l’“invasore”, dal quale ci si è difesi con la costruzione di solide mura in pietra o di alti muri elettrificati, l’assedio che stiamo subendo oggi è quello mosso dagli effetti dei cambiamenti climatici che noi stessi abbiamo innescato e che quotidianamente continuiamo ad alimentare.
È necessario pertanto che ciascun individuo e ciascuna comunità si interroghino su queste problematiche ed agiscano di conseguenza, facendosi agenti di quel cambiamento che tutti auspichiamo possa concretizzarsi quanto prima.

Biblio-sitografia di riferimento:

Croce Dario, Nodari Pio, Pellegrini Giovanni Battista, Tessari Francesco, Effetti dell'alluvione del novembre 1966 sulle sedi abitate delle Tre Venezie, in: Comitato dei Geografi Italiani, Atti del XXI Congresso Geografico Italiano, Verbania, 13-18 settembre 1971, vol. II, Novara, a cura dell’Istituto Geografico De Agostini, 1971, pp. 290-302.

OECD/European Commission (2020), Cities in the World: A New Perspective on Urbanisation, OECD Urban Studies, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/d0efcbda-en.

Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (2021), Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici, Report di Sistema SNPA, 22, Edizione 2021, https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2021/07/IT_Sintesi_Rapport....

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Testo a cura di: Giovanni Donadelli e Chiara Gallanti, Museo di Geografia
 

13Obiettivo 12 - Fusione nucleare e comunità sostenibili (Museo degli Strumenti dell'Astronomia)

La ricerca astronomica spesso appare completamente disgiunta dalla vita reale. Fin dalla metà dell’Ottocento, le ricerche di spettroscopia furono fondamentali per lo sviluppo dello studio della materia e per varie applicazioni in campo tecnologico e medico. Basti pensare alla scoperta del coronio nello spettro della corona solare e del nebulio in quelli delle nebulose. All’epoca in laboratorio si adoperavano prevalentemente gas neutri a densità relativamente alte, quindi le righe di emissione del coronio e del nebulio furono attribuite a nuovi elementi chimici non presenti sulla Terra. In realtà erano elementi chimici noti, ma elettricamente carichi, quelli che oggi chiamiamo plasmi! Pensate a tutte le applicazioni che oggi abbiamo col plasma.
Un altro esempio di serendipity, è lo studio del funzionamento delle stelle: chi avrebbe mai detto che studiando gli astri, avremmo trovato una fonte di energia praticamente inesauribile e con un gas inerte come residuo?! Manca ancora qualche decennio per arrivare allo sfruttamento di questa energia, ma Padova è già in prima linea in questa importante ricerca.
La spettroscopia padovana ebbe un grande sviluppo con l’inaugurazione del telescopio Galileo avvenuta nel 1942. Il direttore Giovanni Silva, nonostante fosse un esperto di geodesia e di calcolo delle orbite planetarie, fu altruista e lungimirante quando volle assolutamente applicare uno spettrografo al telescopio Galileo (e per questo fu utilizzata la denominazione Osservatorio Astrofisico di Asiago). A causa dei problemi provocati dal secondo conflitto mondiale, il primo spettrografo, a prismi, arrivò solo nel 1942. Seguirono poi altri spettrografi, ma a reticolo di diffrazione, come quelli che utilizziamo tutt’oggi. Tra i vari studi spettroscopici che si portano avanti fin dalla fondazione dell’Osservatorio, quello delle stelle novae è sicuramente uno dei più importanti.

Le stelle novae sono formate da una stella nana bianca (grande come la Terra, ma con una massa come il Sole e quindi una densità di circa una tonnellata per cm3!) e da una stella di tipo solare. Se quest’ultima cede del gas a dei ritmi ben precisi alla nana bianca può provocare l’esplosione del guscio della nana stessa: è il fenomeno di nova, il quale è prodotto dalla fusione nucleare che avviene addirittura sulla superficie della stella (nelle stelle standard come il nostro Sole, la fusione termonucleare può avvenire solo nel nucleo, inaccessibile alle osservazioni dirette). Oggigiorno ci sono astrofili (astronomi dilettanti) e telescopi robotici che vanno a caccia di nuove novae, ma un tempo si cercavano anche da Asiago, in particolare coi telescopi Schmidt a grande campo. Fino agli anni novanta, si lavorava con lastre fotografiche e si cercavano le novae confrontando immagini nuove con quelle d’archivio, attraverso l’utilizzo del comparatore o blinker.
Scoperta la nova, si procedeva poi al suo studio approfondito col telescopio Galileo, sia attraverso la spettroscopia che la fotometria. La fotometria è una sorta di spettroscopia a bassissima risoluzione: invece che analizzare le singole lunghezze d’onda, si usano dei filtri per studiare l’andamento luminoso in bande di vario colore (vicino infrarosso, rosso, verde, blu e ultravioletto). Per calcolare la luminosità dell’astro attraverso la sua magnitudine apparente o per estrarre il suo spettro, si doveva analizzare la lastra fotografica con un microscopio. I dati così ottenuti poi venivano plottati su carta millimetrata e mandati alle riviste specializzate di astronomia per la pubblicazione.
Era un modo di lavorare analogico che richiedeva circa una settimana per ottenere uno spettro pubblicabile, mentre oggi bastano pochi minuti!
Questa metodica richiedeva in gran parte strumentazioni su misura, adatte al telescopio, e quindi il MUSA raccoglie strumenti di cui solo poche copie al mondo.

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Testo a cura di: Paolo Ochner, Museo degli Strumenti dell'Astronomia

14Obiettivo 13 - I fossili come testimonianza dei cambiamenti climatici (Museo di Geologia e Paleontologia)

Grazie allo studio dei fossili i paleontologi hanno capito come il clima sia cambiato più volte nel corso del Tempo Geologico e come i cambiamenti climatici siano stati parte integrante dell’evoluzione del nostro pianeta. Uno degli esempi più significativi di tali cambiamenti riguarda il Pleistocene (iniziato 2.5 milioni di anni fa e terminato circa 11.000 anni fa), quando l’Europa e l’area mediterranea sono state interessate dalle glaciazioni.
Gli effetti di questi cambiamenti sono documentati da fossili di invertebrati, vertebrati e piante. Nel caso delle piante oltre ai resti fossili si possono trarre importanti informazioni dallo studio dei pollini.

Durante le fasi fredde, glaciali, il Mediterraneo veniva colonizzato da faune che attualmente vivono nella regione artica e nel Mar Baltico (detti “ospiti boreali o freddi"); durante le calde fasi interglaciali il Mediterraneo ospitava invece faune attualmente viventi lungo le coste dell’Africa occidentale (detti "ospiti senegalesi o caldi").
In museo sono conservati alcuni molluschi fossili, provenienti da depositi marini del Pleistocene italiano, che sono chiari esempi di "fossili climatici". I più significativi sono Arctica islandica, Panopea norvegica, Mya truncata e Neptunea contraria, ospiti freddi, giunti nel Mar Mediterraneo durante i periodi glaciali, mentre nell’ultimo interglaciale, durante il quale la temperatura media annuale era più alta di quella odierna, sono arrivati, dalle coste atlantiche africane, ospiti caldi come Persististrombus latus (= Strombus bubonius), Conus testudinarius e Brachidontes senegalensis.
Analogamente sulle terre emerse la megafauna del Pleistocene testimonia questa alternanza di periodi caldi e periodi freddi. Tra i fossili italiani più significativi si ricordano: elefanti (Palaeoloxodon antiquus), ippopotami (Hippopotamus amphibius), rinoceronti di foresta (Stephanorhinus kirchbergensis), vissuti durante i periodi caldi, durante i periodi freddi le terre emerse erano popolate da mammut (Mammuthus primigenius), orsi delle caverne (Ursus spelaeus), rinoceronti lanosi (Coelodonta antiquitatis), alci (Alces alces).

Qui di seguito si possono consultare le schede di alcuni di questi fossili conservati presso il Museo di Geologia e Paleontologia.

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Testo a cura di Mariagabriella Fornasiero, conservatrice del Museo di Geologia e Paleontologia

15Obiettivo 14 - La vita sott'acqua (Museo didattico di Medicina Veterinaria)

L’acqua è il bene più prezioso presente sul Pianeta Terra. Più del 70% della superficie terrestre è ricoperta di acqua, di questa però solo il 2,5% è la frazione di acqua dolce, e in particolare, solo lo 0,007% è la frazione disponibile per gli organismi terrestri. Il resto invece è rappresentato principalmente dall’acqua presente negli oceani ospitanti un numero di specie così vasto da non poterle neppure quantificare.
Forse tutta questa vastità potrebbe portarci a pensare che le specie del mare siano al sicuro, e che vivano in uno stato paradisiaco governato da leggi proprie e inattaccabili. E invece non è così, anche i mari stanno cambiando in fretta il loro volto e le ragioni sempre più spesso sono legate alle attività della più evoluta e più invasiva delle specie: l’uomo.
Anche in questi ecosistemi, infatti, la presenza delle attività antropiche sta producendo continuamente uno stress tale da far pendere l’ago della bilancia dalla parte dell’irreversibilità.
Uno degli effetti di tale catastrofe è rappresentato dal progressivo declino delle specie.
Intanto gli abitanti della Terra saranno presto 8 miliardi secondo gli ultimi rapporti e le previsioni parlano di 8,5 miliardi entro il 2030 e addirittura 9,7 miliardi entro il 2050.
D’altro canto l'Obiettivo 14 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, si pone il problema di gestire e proteggere in modo sostenibile gli ecosistemi marini e costieri per evitare impatti negativi significativi, al fine di ottenere oceani sani e produttivi. Di prevenire e ridurre in modo significativo l'inquinamento marino di tutti i tipi, in particolare quello proveniente dalle attività terrestri, compresi i rifiuti marini e l'inquinamento delle acque entro il 2025
E ancora di aumentare i benefici economici derivanti dall'uso sostenibile delle risorse marine anche mediante la gestione sostenibile della pesca, dell'acquacoltura e del turismo entro il 2030.

Pertanto, sfruttamento eccessivo delle risorse, catture accidentali, attività legate alla pesca, utilizzo di pratiche illegali, estinzione di specie sono solo alcuni dei temi al centro di questo dibattito nel quale il solo interlocutore è l’uomo, dal quale però dipende il destino di innumerevoli specie.
La mostra virtuale, pone all’attenzione del pubblico, sei reperti presenti presso il Museo Didattico di Medicina Veterinaria all’interno della collezione “Patologie ossee di animali domestici e selvatici”.
Inaugurata nel 2017, l’intera collezione consta al momento di 42 reperti, alcuni dei quali appartengono a specie marine minacciate, presenti nel mar Adriatico. La scelta vuole mettere in evidenza come le attività umane spesso s’intersechino con la vita delle specie acquatiche, producendo a volte danni minimi, a volte danni irreversibili.
Ecco come la mostra virtuale da momento di formazione diventa dapprima momento di riflessione e successivamente, per ciascuno di noi, momento di stimolo, inteso come ricerca di strumenti per rendere la propria vita concretamente più sostenibile.

Sitografia:
https://www.am.pictet/it/blog/articoli/sviluppo-sostenibile/giornata-mon...

https://asvis.it/public/asvis/files/traduzione_ITA_SDGs_&_Targets.pdf
 
http://hdl.handle.net/10579/14200

https://www.suoloesalute.it/wp-content/uploads/2013/02/ag_per_sito.pdf

https://www.nationalgeographic.it/ambiente/2020/03/crisi-dellacqua-dolce

https://marevivo.it/approfondimenti/quante-specie-vivono-nelloceano/

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Testo a cura di: Giuseppe Palmisano, Museo didattico di Medicina Veterinaria
 

16Obiettivo 15 - Fermare la perdita della diversità biologica (Museo di Zoologia)

La protezione e l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, con la loro ricchezza di specie animali e vegetali è uno dei traguardi chiave dell’Obiettivo 15. È assolutamente prioritario fermare la perdita di biodiversità, ovvero mettere in atto tutte quelle strategie che ci consentono di tutelare e proteggere le specie con cui condividiamo il pianeta e che stiamo mettendo in pericolo con il nostro comportamento irresponsabile per caccia diretta o per distruzione del loro habitat.
L’obiettivo 15 è articolato in numerosi target volti alla protezione di questa biodiversità, come garantire la conservazione, il ripristino e l’uso sostenibile degli ecosistemi dell’entroterra e delle acque dolci terrestri, fermare la deforestazione e promuovere il ripristino delle foreste degradate e la riforestazione, combattere la desertificazione ripristinando i terreni degradati e proteggendo il suolo, garantire la conservazione degli ecosistemi montani, porre fine al bracconaggio ed al traffico illecito di specie protette, prevenire l’introduzione di specie alloctone (aliene) e ridurre l’impatto di quelle già introdotte per salvaguardare la biodiversità locale.
Ed è proprio su questi ultimi due target che ci concentreremo in questa tappa, vedendo, tramite gli esemplari conservati al Museo di Zoologia, alcuni esempi pratici di specie estinte o in pericolo di estinzione a causa della caccia indiscriminata o della competizione con specie alloctone.
 
L’esemplare forse più iconico dei danni causati dal bracconaggio è proprio uno degli esemplari più antichi conservati nel nostro museo. Appartiene infatti alla collezione, accumulata tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700, da Antonio Vallisneri senior (1661-1730), collezione che ha costituito il nucleo di partenza di numerosi musei del nostro Ateneo. Si tratta di un corno di rinoceronte nero, montato su un basamento in ottone. Il rinoceronte nero, un grosso erbivoro delle savane e boscaglie africane, è infatti uno dei grandi mammiferi a maggior rischio di estinzione. Questo animale, che già soffre pesantemente della riduzione e frammentazione del suo habitat, è da anni vittima di un bracconaggio spietato per recuperare le due possenti corna che porta sul naso e sulla fronte. Si tratta di strutture non ossee bensì costituite da filamenti di cheratina (come le nostre unghie e i nostri capelli), che sono usate nella medicina tradizionale cinese e vietnamita come rimedio per una varietà di disturbi. Fatto sta che questi poveri rinoceronti sono cacciati allo sterminio: nell’ultimo secolo e mezzo si sono già estinte 3 delle 6 sottospecie riconosciute (l’ultima nel 2011) e le altre sono a rischio critico. Per quanto a noi possa sembrare inverosimile (medicinali preparati con corna grattugiate di rinoceronte hanno lo stesso potere curativo che …mangiarsi le unghie!) il valore delle corna raggiunge i 100.000 dollari al chilogrammo (più del doppio rispetto all’oro!). Nonostante gli enormi sforzi che si stanno facendo ormai da anni per proteggere i pochi rinoceronti che sopravvivono nei parchi naturali africani, spesso sotto scorta armata, i bracconieri riescono frequentemente a raggiungere gli esemplari e tagliargli le corna, spesso lasciandoli poi morire dissanguati. E i trafficanti non si limitano ai parchi naturali africani ma nell’ultimo decennio il fenomeno si è rivolto ai musei. Ai musei? Si, sostituito il fucile con il piede di porco, i trafficanti hanno fatto irruzione in più musei italiani ed europei per segare le corna da esemplari imbalsamati o portare via reperti isolati. Per cui, nelle nostre vetrine è ora esposto un calco mentre il prezioso corno originale settecentesco è custodito al sicuro in cassaforte in altro edificio.
Altre specie messe a rischio di estinzione dalla riduzione del loro habitat e dal bracconaggio per superstizione, sono la tigre del Bengala, le cui ossa e pelli sono ritenute importanti ingredienti nella medicina tradizionale cinese per aumentare il tono muscolare e curare i reumatismi e l’elefante asiatico, cacciato per l’avorio delle sue zanne, con cui vengono intagliati monili ed oggetti preziosi, ma anche per la pelle, utilizzata nella medicina tradizionale cinese per curare problemi allo stomaco.
Queste tre specie sono state scelte come “specie bandiera”, ovvero specie vulnerabili e particolarmente carismatiche che vengono utilizzate come ambasciatrici o icone di un determinato habitat o ecosistema da proteggere, per suscitare il supporto del grande pubblico nella speranza che gli sforzi volti a salvare loro dall’estinzione, giovino anche ad altri animali che condividono lo stesso habitat o che sono vulnerabili alle stesse minacce.
Ma abbiamo anche esempi di specie che sono state sterminate per puro gusto “ludico”, se così possiamo chiamare i giochi circensi dell’antica Roma. In periodo imperiale, i romani prelevavano infatti ogni anno in nord Africa migliaia di esemplari di leone berbero per farli combattere nei circhi contro altre fiere. Questo portò ad una forte riduzione delle popolazione di questo grosso felino che si ritirò sulla catena dell’Atlante per poi estinguersi definitivamente in natura, con l’uccisione degli ultimi esemplari nei primi anni ’40 del secolo scorso.
In museo è conservato anche un esemplare di podilimbo gigante, un uccello acquatico del Centro America, parente del nostro svasso, purtroppo estinto. In questo caso, il suo declino è stato causato dall’introduzione, nel lago in cui viveva, di specie ittiche alloctone per incentivare la pesca sportiva. Queste, non solo entrarono in competizione con lui per il cibo, ma ne divorarono anche i piccoli nei nidi.
L’immissione di specie alloctone porta infatti sempre a degli sconvolgimenti nelle comunità locali mettendo a rischio le specie autoctone. È il caso che stiamo vedendo ora con lo scoiattolo rosso, che viene via via soppiantato dallo scoiattolo grigio nord-americano, introdotto accidentalmente in Italia e in Gran Bretagna negli anni ‘50.
 
Numerosi sarebbero ancora gli esemplari del nostro museo che appartengono a specie messe a rischio di estinzione dalle nostre azioni irresponsabili, sia tra le specie terrestri, per cui vi invitiamo a leggere le tappe di questo tour virtuale, sia per le specie marine, per cui vi rimandiamo anche al Museo Didattico di Medicina Veterinaria a cui, in questo percorso virtuale tutto CAM, è dedicato l’obiettivo 14 dell’Agenda 2030, ovvero la salvaguardia della vita sott’acqua.

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Testo a cura di: Marzia Breda, conservatrice Museo di Zoologia

17Obiettivo 16 - Archeo Crimes. Il contrasto al crimine nel settore dei beni culturali e il ruolo dei Musei e degli Istituti della cultura (Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte e Dipartimento dei Beni Culturali)

Il contrasto al crimine nel settore dei beni culturali è strettamente connesso all’accesso alla giustizia garantito per tutti e alla presenza di istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli come prefigurato nell’ Obiettivo 16. Il raggiungimento dell’equità e della giustizia sociale, il ripristino della pace nei Paesi in conflitto attraverso la costituzione di Istituzioni efficaci, sono elementi che consentono agli Stati di contrastare più efficacemente anche gli illeciti nel settore dei beni culturali. In particolare l’obiettivo 16.4 sollecita l’impegno di ciascun Paese a ridurre tutte le forme di violenza, combattere la criminalità in tutte le sue forme organizzative, eliminare la corruzione e i flussi finanziari e di armi illeciti, rafforzare il recupero e la restituzione dei beni rubati. 
Tra le forme di criminalità organizzata, Il traffico illecito dei beni culturali, spesso connesso al saccheggio di siti e monumenti anche con scavi clandestini, produce ogni anno non solo devastanti conseguenze sul patrimonio mondiale ma fornisce anche ingenti ricavi alle maggiori associazioni criminali. Dal punto di vista culturale e sociale l’immissione di questo patrimonio mobile di provenienza illecita in circuiti economici scinde irreversibilmente il legame dei reperti con il loro contesto originale e priva gli stessi e le comunità di riferimento di parti importanti della loro storia e della loro identità. La costante domanda di beni archeologici sul mercato internazionale ha anche un altro esito, ovvero la produzione di oggetti falsi, che vengono realizzati con tecniche sempre più aggiornate da parte dei falsari. L’inserimento di questi oggetti nel mercato, quasi sempre assieme a beni autentici, oltre a generare proventi illeciti, come già detto, ha effetti nefasti anche dal punto di vista culturale e della considerazione dei beni autentici.
 
La provenienza e l’autenticità degli oggetti sono dunque alcune fra le principali incognite del mondo dell’arte e dell’archeologia. Gli archeologi e gli storici dell’arte si interrogano sull’origine dei manufatti, sulle loro qualità artistiche o sulle informazioni che essi ci trasmettono su uno specifico autore, su una determinata società o su un particolare periodo storico.
Queste stesse domande vengono affrontate quotidianamente anche nei musei, spesso raccoglitori di molteplici collezioni formate nel tempo e nelle modalità più diverse (dagli scavi archeologici alle donazioni di privati cittadini, dall’acquisizione al comodato, ecc.), i quali devono garantire a questi beni condizioni di conservazione, fruizione e valorizzazione nella legalità. Nasce così un vero e proprio filone di ricerca sui cosiddetti “studi sulla provenienza”.
 
Dal 2018, il Progetto MemO (Dipartimento dei Beni Culturali) ha avviato una campagna di indagine per la ricostruzione delle biografie degli oggetti da collezione, partendo volutamente dal Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte. Questa narrazione degli oggetti ha ricadute cruciali in molteplici campi d’azione del museo: consente di studiare il fenomeno del collezionismo e le sue strette connessioni al commercio dei beni culturali e alla falsificazione; apre alle applicazioni tecnologiche e alla formazione di esperti in autenticazione e costituisce in generale un repertorio di buone pratiche per la prevenzione delle situazioni di illecito e la diffusione della cultura della legalità nelle comunità di riferimento.
 
Con riferimento al materiale vascolare preso in considerazione dal progetto, incontriamo dapprima  la più antica collezione del museo, la collezione Mantova Benavides, un nucleo collezionistico che risale alla collezione privata dell’omonima famiglia, costituitosi nel Rinascimento a Padova e poi giunto tramite la donazione di Antonio Vallisneri jr all’Università di Padova nel 1733. Tra i pochi vasi antichi si ritrovano anche due vasi all’antica, ovvero vasi rinascimentali prodotti ad imitazione di crateri a campana italioti. Un esempio eloquente è il cratere con raffigurazione dell’allegoria della Giustizia che appartiene al filone rinascimentale degli studi sull’antico e in tal senso riprende la forma e la decorazione secondaria da quelle dei vasi antichi in collezione. Le scene figurate principali tuttavia sono moderne e trovano puntuali riscontri in temi e soggetti delle arti maggiori contemporanee del sec. XVI, in particolare la figura del guerriero è una citazione dal ciclo pittorico di Sala dei Giganti in Padova (1540).
 
Al collezionismo recente appartiene invece un’altra collezione del museo, quella dei coniugi Michelangelo Merlin e Oplinia Hieke, regolarmente notificata e donata all’Università di Padova nel 2006 per disposizione testamentaria. La collezione, che conta 138 oggetti, comprende ben 105 vasi tra cui ceramiche: greche di produzione corinzia e attica; a vernice nera; di produzione italiota, lucana ma soprattutto apula; sovraddipinte e della produzione nello stile di Gnathia. Tutti i pezzi sono privi di dati di provenienza e gli studiosi hanno restituito una storia a questi oggetti attraverso l’osservazione e il riscontro delle tecniche di produzione, della forma, della decorazione, dell’utilizzo in antico ma anche dei restauri, antichi e moderni. Un esempio di studio tradizionale è quello su alcune pelikai, specie di anfore destinate a contenere probabilmente olio, il cui utilizzo, già noto in ambito greco (Attica), ebbe larga diffusione in ambito coloniale magnogreco, forse con qualche connotazione collegata alle ritualità del mondo femminile. A riti di passaggio in particolare, riconducono le scene figurate della pelike Merlin37.
Tuttavia, anche la Collezione Merlin-Hieke non è risultata incolume dal meccanismo della falsificazione, qui chiaramente intenzionale ed eseguita con cura, che ha ingannato il collezionista, pur attento e scrupoloso. È giunto pertanto in collezione anche un vaso ceramico in stile di Gnathia che presenta alcune anomalie sia per quanto riguarda la forma sia nella loro decorazione. Il manufatto Merlin110, in particolare, evidenzia sia nella cottura, sia negli elementi decorativi caratterizzanti, sia infine nella produzione dell’intera forma, modalità operative anomale e non particolarmente diffuse in questo periodo e per questa classe ceramica. Sebbene l’oggetto intenda imitare un vaso antico, commercializzato fra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., esso è in realtà un prodotto contemporaneo, realizzato molto probabilmente nel Secondo dopo guerra. La rilevazione del fenomeno è stata possibile grazie agli studi di autenticazione
 
Il museo, istituzione che opera per sua natura nella legalità, è in contatto costante con gli Organi preposti alla tutela (Ministero della Cultura-Soprintendenze). Al Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte negli anni ’50 del secolo scorso è stato affidato un nucleo di oggetti recuperati dall’Arma dei Carabinieri nel comune di Comacchio (FE), di provenienza illecita, da scavi clandestini nella necropoli dell’antica città di Spina. Tra il materiale vascolare anche un cratere attico (K24). Il recupero alla legalità di questi beni e l’affidamento al museo ne ha consentito non solo la conservazione ma anche lo studio e la valorizzazione.
 
Il Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte non è solo un luogo di conservazione degli oggetti ma è anche luogo di produzione di conoscenza, grazie a progetti condivisi come il Progetto MemO, e di diffusione della stessa ad un più vasto pubblico. Formare nuove professionalità di alta specializzazione nel campo dei Beni culturali e diffondere la consapevolezza dell’importanza della cura del patrimonio e della tutela dei Beni culturali come Beni comuni, costituiscono strumenti potenti di contrasto del traffico illecito e di tutte le implicazioni correlate.

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Testo a cura di: Alessandra Menegazzi, conservatrice del Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte; Monica Salvadori, Monica Baggio, Luca Zamparo, Progetto MemO - Dipartimento dei Beni Culturali

 
Bibliografia
 
Baggio M., 2013 - “Alcuni vasi della Collezione Merlin al Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte di Padova”, in “Eidola”, 10. Pp. 41-60.
 
Casini L., Pellegrini E., 2019 - "Donare allo Stato. Mecenatismo privato e raccolte pubbliche dall’Unità d’Italia al XXI secolo". Il Mulino, Bologna.
 
"Codice etico dell’ICOM per i Musei". Bologna 2009.
 
Giulierini P., Melillo L., Savy D., 2018 - "Archeologia ferita. Lotta al traffico illecito e alla distruzione dei beni culturali". Editoriale Scientifica, Napoli.
 
ISTAT, Rapporto SGDs 2020. "Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia". Roma 2020.
 
Menegazzi A., 2013 - “La collezione dei coniugi Michelangelo Merlin e Oplinia Hieke: da raccolta privata a museo pubblico”, in “Eidola”, 10. Pp. 31-40.
 
Salvadori M., 2019 - “Progetto MemO. Studio e valorizzazione della ceramica greca e magno-greca nei Musei del Veneto”, in Degl’Innocenti E., Consonni A., Di Franco L., Mancini L., “Mitomania. Storie ritrovate di uomini ed eroi”, Atti della giornata di studi (Taranto, Museo Archeologico Nazionale, 11 aprile 2019). Pp. 54-65, Gangemi, Roma.
 
Salvadori, M., Baggio, B., Bernard, E., Zamparo, L., 2020 - “Il Progetto MemO e lo studio dei falsi. Note preliminari sulla Collezione Marchetti (Padova)”, in “Falso! Il patrimonio culturale e la difesa dell’autenticità”, Atti del convegno (Roma. Museo Nazionale Romano - Palazzo Altemps, 25-27 ottobre 2018). Pp. 83-110, Edizioni Efesto, Roma
(contiene un paragrafo dedicato al Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte).
 
Zamparo L., 2017- 2018 - "Collezionismo e autenticazione all’Università di Padova: la ceramica sovraddipinta e in stile di Gnathia nelle collezioni Mantova Benavides, Marchetti e Merlin".T tesi di specializzazione, Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, Università degli Studi di Padova, rel. prof.ssa M. Salvadori, correl. dott.ssa M. Baggio.
 
Zamparo L., 2000 - "L’ho trovato in soffitta!". In “Journal of Cultural Heritage Crime”, 25 giugno 2020
https://www.journalchc.com/2020/06/25/lho-trovato-in-soffitta/
 
Zamparo L., 2000 - "L’ho trovato in giardino!". In “Journal of Cultural Heritage Crime”, 17 luglio 2020 
https://www.journalchc.com/2020/07/17/lho-trovato-in-giardino/
 
Zamparo L., 2020 - "Portiamolo al Museo!. Brevi raccomandazioni per ritrovatori e collezionisti inesperti". In “Journal of Cultural Heritage Crime”, 9 settembre 2020 https://www.journalchc.com/2020/09/09/portiamolo-al-museo/
 

18Obiettivo 17 - Partnership per gli Obiettivi (Centro di Ateneo per i Musei)

In una prospettiva di collaborazione tra alcuni dei maggiori istituti universitari italiani, nel 2020 è stato stilato un accordo tra gli Atenei di Padova, Bologna, Napoli Federico II e Pisa (Prot. n. 295 del 10/04/2020) con l’obiettivo di delineare linee guida condivise per la gestione e la valorizzazione del patrimonio museale universitario.

Nel 2000 vi sono stati due riconoscimenti importanti a livello sia nazionale che internazionale: l’istituzione, all’interno dell’ICOM (International Council of Museum) di UMAC (University Museums And Collections), il forum internazionale per tutti coloro che lavorano o sono associati a musei accademici, gallerie e collezioni; la fondazione di Universeum, la rete europea di professionisti del patrimonio e dei musei, ricercatori, studenti, amministratori di università e tutti coloro che sono coinvolti nel patrimonio universitario. Tali importanti iniziative, tuttavia, hanno visto la partecipazione di singoli operatori museali italiani, ma non il coinvolgimento delle nostre università a livello istituzionale.

Il gruppo dei proponenti (Università di Padova, Bologna, Napoli Federico II, Pisa) è parte del vasto ed eterogeneo sistema dei musei universitari italiani. Le quattro università sono fra le più antiche d’Italia e nella loro lunga storia hanno accumulato straordinarie collezioni, frutto di una vasta attività di ricerca, che ha coinvolto numerose discipline. Tale patrimonio, nonostante l’intrinseco valore, attende ancora di essere pienamente riconosciuto e legittimato e necessita di strumenti gestionali adeguati. Sono molti i motivi che hanno fatto sì che finora il potenziale del patrimonio museale universitario non sia stato adeguatamente compreso e utilizzato: la natura “ibrida” dei musei universitari, istituzioni legate alla ricerca, ma allo stesso tempo aperte al territorio; le difficoltà derivanti dal mancato riconoscimento delle figure cruciali dei conservatori; la persistenza di un sistema di gestione frantumato e policentrico.

Il gruppo pilota dei quattro Atenei italiani si propone di contribuire all’avvio di una identificazione dei problemi (gestione, conservazione, catalogazione, valorizzazione), indicando possibili soluzioni, anche nella prospettiva di una estensione della rete a livello nazionale. L’obiettivo è quello di creare un connettivo inter-museale italiano, uno spazio operativo permanente a disposizione sia dei conservatori sia dei referenti scientifici accademici. Tutto questo senza dimenticare che il principale interlocutore della Rete dei Sistemi Museali sono i cittadini: docenti, studenti, personale amministrativo, famiglie e tessuto sociale, rispetto ai quali le Università, per definizione, svolgono una funzione propulsiva. Infatti, il destinatario principale del patrimonio culturale universitario non è il “consumatore” o il “cliente”, in gergo squisitamente aziendalese, ma il cittadino che è punto di riferimento per l’attivazione dei processi di creazione di valore sostenibile di lungo periodo.